Disco – anzi, progetto – divertente, da sminuzzare senza panegirici mentali ma poi, alla fine, da inghiottire nella sua complessità per quello che è: un gran (bel) esperimento musincretico.
Sedici pezzi da vero “traffico delle culture musicali”. Sottili e oscuri, fumosi quasi. Viscerali. (“Explorer”). Su un piano alternativo a quello della cosiddetta world music.
Qui è infatti la dj culture di marca decisamente più underground ed estrema (quella di dj Myke, storico codificatore del turntablism, che fra un po' si studierà pure al conservatorio, coi Men in Skratch) ad innestarsi, senza troppi fronzoli, ad elementi di estrazione a dir poco variegata e straniante. Dal rock e l’ hip-hop di “Overdriver”, che fa tanto Prodigy – per inciso, i The Reverse hanno aperto le tre date dello scorso dicembre – all’electroclash minimalista quasi lunge di “Escape”, che si apre poi ad inserti chitarristici e quasi fusion di gran gusto. Fermo restando l’approccio dub che dà il senso al disco, in una sorta di orchestrazione continua e reciproca fra piatti e chitarre, campioni e bassi potenti, inserti rappati e parti cantate (benissimo) da Sabrina Cimino.
Tutto questo mammasantissima sonoro non impedisce al duo di tirar fuori pezzi più propriamente canonici (“I’m Natural…”, splendida), alternando triturazioni musicali e cambi di ritmica continui, inaspettati (talvolta troppo inaspettati), sminuzzamenti concettuali decisamente rischiosi. Ma che in una struttura del genere acquistano fascino schivando abilmente il “casino” sonoro – anche grazie al raffinatissimo mixaggio del sesto membro dei Radiohead (vi basti, per inginocchiarvi, "Ok Computer"), Nigel Godrich. E ricamando – torno ad “Explorer” – ambientazioni ambiziose, che superano di gran lunga ogni elemento che compone il lavoro. Che proprio quando pensi sia finito, riparte decollando verso la realizzazione di un prodotto meticcio – non a caso pare stia andando bene a Londra - che non sai più cos’è: non sai se metterti a ballare, se sfiora la house, se quelle chitarre e quei bassi sono free, rock, (acid) jazz. Se è drum ‘n’ bass (“Extrabeat”), hip-hop. Se sfiora l’ambient o la “cinematografica” (“Holocaust”). O se è solo sterile virtuosismo electroesaltato.
Se ci sono (troppo) i Prodigy o il trip-(pop) di Tricky, Massive Attack. O ancora Sneaker Pimps e Portishead. Insieme alla clubbing mind più sperimentatrice.
Ma in fondo un disco del genere pretende, esige anzi un’analisi olistica, completa e globale. Un’analisi che metta in evidenza la cifra ibrida – ma ogni genere, da sempre, è ibrido – di un’ora di strabiliante cutandpaste imbizzarrito. E seducente.
Dice: vintage futurism. Si, forse. Anche se le etichette, al solito, significano un cazzo.
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