Anni passati a esercitare l’onorevole mestiere di turnista e a suonare il piano con quei buontemponi degli Aires Tango. Poi arriva il momento di metterti in proprio e nemmeno te ne accorgi. Sei lì che per la prima volta devi fare i conti con te stesso e con le tue energie, e per non sapere né leggere né scrivere in mezzo finisci per inserirci di tutto, anche l’anima. Come ha fatto Alessandro Gwis con la sua opera prima, un disco strumentale all’interno del quale ha provato a condensare buona parte del suo passato, che poi è anche il suo presente: dal jazz all’elettronica, sia pur minimale e discreta, fino alla tradizione del vecchio continente e all’immancabile tango. Un percorso portato avanti con il bassista Luca Pirozzi e il batterista Armando Sciommeni, ideali compagni di viaggio di un lavoro inevitabilmente tecnico ma senza eccessi, ricco di lirismo e piacevoli suggestioni, piacevolmente immerso tra potenziali colonne sonore di film muti e atmosfere imprevedibili.
Un cd diviso quasi a metà tra improvvisazioni registrate in studio (senza premeditazione alcuna, è assicurato all’interno del booklet) e pezzi studiati a tavolino. Meglio le prime a dire il vero, e se la loro caratteristica è la brevità, poco importa: merito del loro essere spiazzanti, con quella felice anarchia organizzata che le rende affascinanti, dell’abbondanza di intuizioni, come testimoniano le trovate elettroniche di “Marzo summer spleen” (e già il titolo è tutto un programma…).
Forse Alessandro Gwis, con il suo tentativo di sfuggire alla rigidità di chi è abituato a imporre etichette in ogni dove, non incontrerà i favori dell’ortodossia jazz, ma di fronte a un’ipotesi del genere possiamo passare anche sopra con tanto di snobistica indifferenza. E goderci la vivacità di questo disco.
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