Introspezione, solitudine, senso di abbandono esorcizzato attraverso matrimoni con dimensioni eteree che non sono altro da sé ma fondamentale apparato costituente del proprio essere. Reiterata lotta dell'umano nei confronti di mondi visibili e invisibili, autosufficienze emotive in distacco da flussi di coscienza monodirezionali, espressione aurea di punti di vista non ancorati a una superficie collosa e, per questo, longevi nel loro perdurare in un limbo tangibile di visioni reali e concrete. Sono tutte argomentazioni e caratteristiche esistenziali da cui deriva la dichiarazione di intenti messa nero su bianco dai fiorentini Rooms By The Sea, che guardano a Edward Hopper per la ragione sociale e, non a caso, ai rapporti individuali e interpersonali come nucleo portante di tutta questa serie di sfaccettature tematiche.
Arrivato in seguito a vari singoli e diverse partecipazioni a festival e contest di variegata sorta, l'album d'esordio del quartetto toscano, Rivers and beds, non fa sconti in termini emotivi, appoggiandosi a una concezione sonora che si insedia nel presente ma con volenterosi – e necessari – sguardi a un passato glorioso da cui attingere per assimilare e rigenerare una nuova linfa vitale per sonorità e visioni liriche.
La matrice sostanziale di questo primo lavoro in studio – e, stando a quel che sembra, del progetto in sé – è sostanzialmente un pop rock classico con accenti lirici su inequivocabili doti vocali e capacità di arrangiamento più che di composizione. Una scelta stilistica che rischia di passare inosservata nel cuore di un marasma sempre più indistinto di produzioni scadenti fatte passare per buon piatto nazionale, se non fosse per una pregevole predisposizione verso piccoli ma importanti andirivieni stilistici che rendono il tutto meno lineare e più intenso quanto a soluzioni metriche e architetture sonore.
Se alcuni cenni a una sorta di misticismo nordico con sfumature etnico-tribali possono far pensare a un folk rock immerso in venature celtiche un po' – per alcuni aspetti – alla Cranberries (Another life), ecco farsi subito strada influenze indie-dream rock ben più marcate (Great void) e con aperture sintetiche ma sempre votate a uno stile cantautorale di pregevole fattura, dove echi di Tracy Chapman si accostano abilmente a modernismi pop alla Sharon Van Etten (in Lost thought ma ancora meglio in New lights) prima di lasciare il passo a sonorità marcatamente 'eighties' (Copenhagen) che non disdegnano anche intelligenti sortite wave alla Cure (Cold stream e Tomorrow).
Niente di particolarmente nuovo sul fronte compositivo, ma buon approccio al formato canzone – nei suoi vari aspetti – e progetto melodicamente interessante da tenere indubbiamente in considerazione.
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