L'esordio dei Teddy Daniels è un album scarno, immediato, diretto, imperfetto e, per questo, miracolosamente utile a recuperare un minimo di personalità in un mondo di automi
A furia di sanremi, stampini trappettari da inconsistenti pose social, sedicenti hit estive e chi ulteriori sconcezze odierne denota in circolazione più aggiunga note dolenti alla lista, ci stavamo quasi dimenticando che in Italia sono sempre esistite e continuano a esistere ancora oggi le cantine sudicie di sangue e sudore, quei posti dove si scendeva come agli Inferi per fare letteralmente schifo ma forti della consapevolezza che, almeno tra quelle mura, si poteva dire quello che si voleva come si voleva. E poco importava se poi il messaggio rimaneva lì a marcire tra i cuscini sfasciati di un divanetto distrutto preso da una qualunque discarica dell'overground, se non altro ci si era riscoperti esseri umani in condivisione di idee e opinioni esistenziali contrarie al comune intendere le modalità di presenza quotidiana su un pianeta in rovina. Ma quando sano rumore e rispettivo messaggio riuscivano a fare capolino oltre quelle scalinate diroccate, allora il mondo cambiava per davvero, che lo si volesse oppure no.
A ricordarci tutto questo arrivano i Teddy Daniels, quintetto cagliaritano particolarmente dedito a un reale e salvifico spirito da "attacca il jack e suona" che sfocia in un garage-punk dalle sembianze di una vera e propria scarica voltaica tra capo e collo, magnificamente noncurante di clic e inutili trucchetti da studio in quanto ampiamente disposto a mettere nero su bianco ogni minima intenzione senza mezzi termini tanto nel suono quanto nelle tematiche.
Un lancinante album d'esordio come The prisoner, infatti, segue proprio queste direttive non scritte se non in annali di storia del rock esterna ai circuiti massicciamente mainstream, e ne fa strada maestra per procedere lungo sentieri già precedentemente tracciati ma deliziosamente sporchi, ruvidi, grezzi e tumefatti al punto giusto per tornare a vedere il mondo da punti di vista che non siano usuali e che difendano il diritto alla blasfemia concettuale, dove necessario.
C'è tantissimo punk underground, in The prisoner, prevalentemente di scuola statunitense con influenze anche hardcore di casa Dischord e Touch And Go. Da una sorta di traduzione sanguinolenta e polverosa di un certo rock'n'roll delle origini messo in mano ai Fugazi (Shutter island), si approda subito su derive punk underground in direzione grunge oscura alla Nirvana di Bleach (Emotional), che si fanno più marcate in venature Hüsker Dü e NoMeansNo (Not this time), non disdegnano leggerissime inflessioni alla Sonic Youth in certe impostazioni sonore meno assassine (Girl) e strizzano l'occhio tanto a spunti garage rock classici in stile Sonics (Hurricane) quanto a padri putativi come Ramones e Dead Boys (Running wild), prima di sperimentare anche sinuosità hard blues alla Jon Spencer (The prisoner) e inflessioni ballad commerciabili alla Green Day in pausa sigaretta (The end of the story).
Disco scarno, immediato, diretto, imperfetto e, proprio per questo, necessario in un'epoca che deve assolutamente recuperare un barlume di sincerità se vuole sopravvivere all'oblio di ideologie allo sfacelo.
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La recensione The Prisoner di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2022-08-17 16:50:06
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