“Direttore questo gruppo è pazzo, crede di fare folkpop” – “Perché non lo lascia perdere?” – “Sì, e dopo il folkpop chi me lo fa?”.
Ironia della sorte, Allen non l’ho mai potuto soffrire. Ma nello schema, opportunamente traviato, nascosto in tale sequenza del film eponimo alla band di cui si tratta, sta una concisa proiezione delle nostre volontà sull’altrui: in fin dei conti non siamo capaci a rinunciare alle cose, quando le abbiamo anche se non ci facciamo caso, e possiamo decidere perfino di assurgerle a necessità.
I bresciani Annie Hall, a un anno di distanza dal primo autoprodotto, lasciano invece in disparte una eterogeneità di fondo che li portava apolidi a girare in tondo fra i Kings of Convenience, gli Sparklehorse e anche i Belle And Sebastian, dirigendosi ora senza esitazioni verso una schietta green card; non si sono ancora liberati di una pronuncia relativamente approssimativa della lingua – per niente mosche bianche in questa Italia - né, talvolta, di una qual prolissità nel minutaggio spicciolo, ma “Good Old Days” risulta complessivamente già più maturo ed efficace del pur promettente esordio.
Le cinque tracce, si è detto, guadagnano in coesione, vecchio pallino di noi perfettisti. Apre la delicata “Open 24 Hours”, autoriale in punta di acustica come si dilettava Elliott Smith: subito un picco nell’EP, ove lo scomparso crooner incontra l’erede Jeff Tweedy e pure gli Eels meno paranoici.
Seconda e terza traccia, per motivi diversi, non lasciano troppo il segno: “Mushrooms” parte s-lanciata ma termina presto la benzina, adagiandosi poco sopra l’anonimato, mentre “Greetings (From A Place With No Name)” sferraglia pop mancando però di un refrain sufficientemente concreto per farne un singolo con tutti i crismi.
La media risale sul finire, dopo un fischio che fa temere gli Scorpions cala addirittura il Jobim anglofono in un duetto riflessivo coi FakeP: “Little Room” è attraversata da un black out centrale improvviso e inatteso, cacofonico e antipop come un temporale estivo, per poi tornare serena e sciacquata nei territori umanisti del prima. “The Lost Wallet” è la sorella maggiore e morigerata della bellissima “Ghost Legs”, scheletrica nel fare il verso ai Turnpike Glow agresti frenando la complessione ridondante di The Child Of A Creek.
“Già, i rapporti ascoltatore-band sono assolutamente irrazionali e anche assurdi, ma credo che resistano perché effettivamente la maggior parte di me sente il bisogno di uova così”, diceva press’a poco quello…
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