Il primo album degli Androgynus è una miscela di pop anni ‘80 e anni ‘70 in una rilettura contemporanea che riecheggia in parte quella dei Giorgio Poi o dei Thegiornalisti pre-boom, ricca di tastiere synth-pop oriented, groove funkeggianti, melodie mediamente articolate, una sotto trama psichedelica, che in qualche momento raggiunge la sintesi pop-psych dei Tame Impala (Mattino). Il carattere specifico di ‘Medioevo digitale’, e lo si intuisce già dal titolo, è quello di mettere un attimo da parte quella sfera intima che abitano spesso le produzioni di questo genere, per provare una riflessione a ritmo elettro-funk pop.
Dal concept che lega le sette tracce emerge una specie di profezia sulle sorti dell’umana gente, quella di una liberazione dalla fame di consumo e dalle scarsità materiali di questa strana epoca oscura di (relativo) benessere, dopo la quale “torneremo ad essere presenti”, in questo mondo o forse in un altro, perché quello che abitiamo non è messo bene (Non basta). Insomma, c’è alla base specie di filosofia new age, poco fricchettona e cosmica, decisamente più terrena, che pervade tutto l’album e, più che al classico pastiche revival pop, lo restituisce ad uno spessore che nelle intenzioni non può che ricordarci la visione di un Franco Battiato meno misticheggiante e ieratico.
Un’intenzione particolare che però non smorza il carattere ritmico e melodico delle canzoni, diretto e fruibile, anche se ancorato ad arrangiamenti che, dietro un’apparente semplicità fatta di synth un po’ demodè e bassi funkegganti, nasconde un lavoro di fino e ricco di dettaglio. Forse proprio in questi dettagli qualche volta ci si perde un po’, quando il minutaggio comincia ad aumentare, ma sono gli unici momenti di incertezza in un lavoro curato e che lascia presagire sviluppi interessanti.
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