Il Giardino degli Specchi nasce come duo ambiente nel 2015 e sembra che quell’imprinting sia rimasto, nella maniera in cui la formazione romana disegna larghi spazi con il sostegno del piano, del riverbero delle chitarre pulite, dello sciabordio di un’elettronica da fondale, edificando ampie strutture di melodie sovrapposte in espansione continua; già dall’album d’esordio però, il gruppo ha iniziato, con l’aggiunta di una batteria, a declinare questo linguaggio in una veste più ritmica e vicina al canone del post-rock, svolgendo questi ambienti in crescendo lunghi (ma non troppo lunghi, tutto considerato), che partono dalla loro forma cellulare e liquida, evanescente, per poi arrivare ad aperture rocciose e incalzanti trainate dalla chitarra. La formula è quella classica, insomma, con una caratterizzazione spinta sulle parti più pesanti, che partendo da sonorità alla Mogwai dei momenti più aggressivi, arrivano a lambire le coste del post-metal, con qualche reminiscenza di Tool.
La band ha tutte le capacità compositive, esecutive e di produzione per viaggiare a pieno in quel caratteristico spazio emotivo/musicale che ha fatto del post-rock un peculiare punto di incontro tra musica dura ed eterea, musica cerebrale, anche tecnica volendo, e trasporto emotivo; pezzi come Supernova o Distanze padroneggiano il canone alla perfezione, ma difficilmente se ne separano, e probabilmente, al di là dell’impatto del momento, rimarranno davvero impressi solo se fruiti con il giusto contorno per una musica così evocativa, la giusta attenzione e la giusta predisposizione mentale.
Guardando all'album nel suo complesso, allora, è più interessante soffermarsi su brani dall’identità diversa, sugli echi ambient e sulle percussioni riverberati di Orso nero, o sul post metal diretto e senza fronzoli, attraversato da pulsazioni elettroniche, di Kaiju; tracce su cui, magari, puntare per un seguito più variegato di 'Monstrum'.
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