Se li cercate su quell'oceano di schizofrenia uditiva neroverde chiamato Spotify, il primo risultato è uno gruppo beat belga anni '60 omonimo. 46 ascoltatori mensili. Loro stanno poco sotto, ma dei numeri non ci interessa né ora né ieri né domani. Ci interessa invece chi sono questi "loro": si chiamano Les Apaches e vengono dalla Romagna (i lidi sud del titolo sono quelli di Ravenna), come la loro etichetta discografica Brutture Moderne. Con queste premesse potevamo lasciarcelo scappare?
La risposta è ovviamente no, anche perché una volta premuto play si sta poco a farsi catturare da questa creatura aliena, misteriosa, dove la voce viene tagliata da un'ovatta multidimensionale che ci rimbalza nelle sinapsi. Come nei passi striscianti di The importance of being I.S., che sembra un lungo esasperato finale di una qualche jam acidissima nella California del 1969. Come nella melodia ossessiva di Un Jour Sans Fin, che porta i Can in pellegrinaggio coi tuareg del Sahara. O come il bozzetto di filastrocca sydbarrettiana Bateu Ivre, dove la dita si muovono sul manico della chitarra come come un bambino che cerca di evitare di calpestare le crepe sul marciapiede.
Il potere immaginifico dei Les Apaches, così totalmente fuori dalla contemporaneità da diventare un salvifico glitch del sistema, si poggia su un minimalismo stoico, che si percepisce come echeggiare in lontananza. Les Apaches sono in sala prova che svarionano, divertendosi come dei matti a giocare a manipolare i suoni e la voce. E noi siamo fuori che ascoltiamo questo flusso afro-psych-experimental-blues-cosmic-salcaz filtrato dalle pareti spugnose della stanza, con due punti interrogativi che pulsano al posto delle pupille e i cui uncini si appiattiscono sempre di più, fino a diventare degli iridescenti punti esclamativi.
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