Avevo ascoltato il disco dei Virginiana Miller e non mi era piaciuto. Suoni deludenti, melodie inefficaci, voce poco convincente. In realtà non avevo capito nulla. Perché questo disco andrebbe conservato nelle biblioteche. E’ accaduto in un istante. Ascoltando di nuovo, svogliatamente. Un piccolo dettaglio, un’emozione imprevista, la pelle d’oca. Improvvisamente sono esplosi i significati e “Fuochi fatui d’artificio” si è rivelato per quel che è: un piccolo capolavoro di cantautorato moderno. Uno di quei dischi che ti mette al riparo dalla realtà e te la racconta, spingendoti il fiato in gola e lasciandoti un timbro dolceamaro nella voce. Esempio magnifico di musica scritta come fosse un libro. Fiabe inafferrabili, frammenti di pensiero, fatti storici, invenzioni d’autore. Racconti che sigillano l’immaginazione nei sentimenti.
Canzoni che hanno proprio i Virginiana Miller come prima influenza, sorta di autoreferenzialità che nel loro caso significa stile e personalità. “La verità sul tennis” e “Gelaterie Sconsacrate” avevano certamente alcuni momenti di maggiore stupore, ma risultavano forse meno maturi e continui. Stavolta è una narrazione totale, concatenata, dal primo all’ultimo brano, quasi fosse un concept album. Ed è un peccato dovervelo raccontare con le mie parole, perché il modo migliore sarebbe farvi leggere tutti i testi. Eppure non è un disco per tutti, richiede una sensibilità particolare. Difficile interpretarlo a primo ascolto, si rivela col tempo. Dentro c’è Pasolini (“guai a chi lo tocca”), c’è Alessandro Magno che scopre il petrolio, ci sono sguardi al cielo (“tutte le stelle sono splendenti, eppure speri in quelle cadenti”). Ci sono Ladispoli, Ostia e Cerveteri. Si accende persino un vecchio Commodore64. E poi c’è “Uri Geller” che piega cucchiaini in uno dei testi più belli che abbia letto quest’anno. Ma questo disco non è solo Parola è anche Musica. E’ pop orchestrale e rock decadente. Anzi nessuno dei due, perché è soprattutto musica d’autore. Erudita e divertita. Ironica e poetica. Colta e profonda. Scritta con raro equilibrio tra suono e parola. Sviluppata sull’alternanza tra momenti scanzonati e lunghe onde malinconiche. Trame di tastiere, chitarre, archi, elettronica si sovrappongono alla voce di Simone Lenzi che forse non possiede il dono della grazia, ma che ormai trasporta significati con il pathos e l’autorevolezza di un grande cantautore.
“Fuochi fatui d’artificio” è il lavoro letterariamente più intenso del 2006. Se almeno una volta siete stati abbracciati ad una persona importante per sussurragli le parole lette su un libro, forse questo disco è il modo migliore per trovare qualcuno che stavolta le legga per voi.
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