Perché quando vengo messo di fronte a dischi come questo mi viene da rompere un po' le scatoline? Cioè, dico io, ho tra le mani il disco solista di uno che non è il primo scemotto che passa per la strada, si parla del chitarrista dei Giardini di Mirò crincio. Ecco invece che, dopo aver letto le parole già scritte dai colleghi, mi si presenta un piccolo dilemma. Pensare che gli altri non li leggo mai, cacchio.
Loro apprezzano con entusiasmo. Io non è che non apprezzo, sono solo meno impetuoso.
Chiariamo: gli elementi per un lavoro di respiro europeo ci son tutti ed è questo che viene sottolineato dalle recensioni precedenti la mia. Corrado Nuccini mescola con sapienza chitarre a strumentazioni elettroniche, per una volta senza usare chili di pedalini; digita ritmiche hip hop su step sequencer, sgualcendole poi via software alla Funkstorung e mesce con sapienza voci ritmicamente intricate, archi e trombe suonati da un Reverberi, citazioni prese da film fantasy anni '80... manipola anche con cura. Pure in reverse.
Tutte belle ispirazioni e collaborazioni, è il risultato complessivo a non prendermi del tutto: fondamentalmente trovo manchi la rara capacità di far incontrare culture senza assoggettarle, rendendone ancora possibile la distinzione. Esagerando, è un po' come se Vanilla Ice sfornasse un nuovo lavoro dopo essersi acculturato per un anno su The Wire.
Cioè, non voglio insinuare che il rap siano buoni a farlo solo i neri di pelle, la storia musicale degli ultimi 25 anni è piena di rapper anemici, dai Beastie Boys ad Eminem, la vitiligine è venuta pure a Michael Jackson (see, come no). Se rappi però i casi sono due: o ti senti niggaz dentro, anche se sei islandese, oppure stravolgi l'hip hop come fanno Robert del Naja e certi tizi di Oakland. Invece, pur riuscendo sovente a saltellare tipo tappeto elastico per guardare negli occhi Dose One, il disco di Nuccini utilizza alcune parti vocali che faranno storcere il naso agli indie fan (ascoltate la traccia #2 e ditemi a chi somiglia).
Pure la produzione mostra buone intuizioni nello strumentale "Tradition & Abstraction", nelle chitarre al contrario di "Girls Are Laughing" e nel solo di tromba che termina "To Take A French Leave", cadendo di stile altrettanto frequentemente quando capitano certi montaggi un po' sfocati (uno su tutti: "God Is The Spider") conditi da accompagnamenti orchestrali ai limiti della stucchevolezza. Preciso ulteriormente: sono solito ascoltare per godere, non per le pippe intellettualoidi che mi faccio, certo, sapendo però come prenderne le distanze.
So che il genere di trovate proposte in “Matters Of Love And Death” va oggi di moda, basti vedere l'impatto di progetti come i 13&god. Forse in Italia siamo ancora provincialotti in parte, o forse lo sono io che vivo a Lonate Pozzolo, ma trovo leggere forzature e poca naturalezza. Probabilmente quando diverremo “One nation one tribe” sul serio - e non solo in una hit dei primi '90 firmata Shamen - riuscirò a sentire “100% original” anche i sushi bar serviti in abiti tirolesi. Non manca molto: uno dei miei pizzaioli preferiti è cinese e lavora a Busto Arsizio (si, esatto, La terra di Merdor), ma oggi i tentativi come questo riescono solo a farmi palpare l'onestà ed il coraggio di mettersi in gioco, qualità che per ora servono a risplendere giusto per un attimo in un panorama ancorato al vecchiume come quello nostrano.
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