È sufficiente ascoltarlo una volta, Exit, volendo anche distrattamente, e sin da subito si noterà che al proprio interno vibra una energia consistente, quasi massiccia. Fabio Caucino ha voluto che il suo sesto album suonasse così: vivo, prepotente, come egli stesso accenna all’interno del comunicato stampa di rito. Da un album essenziale (ed acustico) come Morimmo tutti d’abbondanza, il cantautore torinese si è convertito a un suono potente, vitale, costruito attorno a una commistione tra rock ed elettronica. Campionamenti e computer a braccetto con l’elettricità di una chitarra in vena di svisate, una contaminazione totale.
Una sonorità che ben si conforma a testi spietati, iracondi, cinici. Caucino esprime l'incapacità di vivere in una società omologata, feroce con i diversi, dominata dall’indifferenza, che disprezza la poesia. “Datemi frasi complesse, un pensiero finalmente libero”: è quasi una preghiera. O meglio, un allarme, un disagio conclamato, affogato nel tentativo di ribellarsi a una situazione apparentemente senza sbocchi: “Ma quale musica ribelle? La mia generazione non ha tempo, non ha parole, non ha pretese di immortalità”, recita il testo della drammatica (e toccante) Verrà il giorno.
Caucino, per mettere insieme Exit, ha deciso di riappropriarsi di quattro pezzi tratti dal repertorio e aggiungere cinque inediti: forse, si tratta di un modo per riallacciare presente e passato, forse, siamo di fronte a un tentativo di cambiare visto che non cambia mai niente. Erri De Luca ha concesso l’utilizzo di alcuni suoi versi in La stessa storia, mentre le parole della docile ballad Anima sono farina del sacco di Stefano Benni. Uniche ‘intrusioni’ (oltre a quella di Renato Ferrucci in fase di composizione) in un album suonato, scritto, arrangiato, prodotto e cantato (a proposito, certe tonalità, a tratti, fanno venire in mente Ivano Fossati) dallo stesso Fabio Caucino. Che balla da solo, o quasi, sulle punte di una rabbia ostinata, quasi aggressiva. Che balla bene, perché non ammetterlo.
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