Pochi giri di parole, diamo a Cesare quel che è di Cesare: col nuovo album Hotel moderno i Leland Did It piazzano un colpo decisamente vincente mutando gradualmente forma e incrementando notevolmente – e con matura saggezza – il livello di sostanza su cui si fonda l'intero progetto.
Non era facile, infatti, stabilire delle coordinate stilistiche divergenti da precedenti esperienze in studio cesellate prevalentemente sui contorni di una predisposizione compositiva basata su un massiccio apporto elettronico, per quanto in salsa potenzialmente wave ma sempre direzionato verso una fruizione metodicamente sintetica ai limiti del – pur godibilissimo – plasticoso. Eppure, dalle primigenie impostazioni con occhio rivolto a I.D.M ed electro funk un po' alla Underworld con tendenze Chemical Brothers, il quartetto pugliese – quasi miracolosamente ma nemmeno tanto: è tutta farina di un sacco molto ben alimentato nel corso degli anni – è riuscito a dare forma a un lavoro egregio sotto molti punti di vista, primo fra tutti quello legato all'innata capacità di inserire elementi discorsivi di riferimento senza mai tralasciare una precisa concezione di identità personale in grado di non far scadere nulla nel derivativo.
Il risultato è un gran bell'album che parte da immediate diramazioni apparentemente spiazzanti ma abili e concrete nel loro saper miscelare le tendenze wave – qui più orientate verso classici come Cure ma anche un po' Smiths – senza mai perdere di vista un amato post-punk declinato in reminescenze tendenzialmente alternative (At any price), per poi tornare su lineamenti familiari ma, stavolta, molto meglio inquadrati in cornici sia elettro-trance con picchi synthwave di matrice noise-underground (Spoiled) che efficacemente dark wave (Still).
Ma è solo l'inizio perché la strada da percorrere riserva ulteriori giri di boa. È il caso di una predisposizione minimalista in funzione di un synth pop anomalo con fattezze sotterranee aspramente sperimentali (Submissive), così come di aperture ambient eteree ma sempre tenute a bada da un substrato alternative-wave (Hotel moderno) a cui si affiancano suggestivi fantasmi '80 (That's for sure), coinvolgenti intingoli elettro-industrial con annesse oscurità psichedeliche sulfuree e tumefatte (260, How?) e recuperi wave ma su basi sophisti-pop / cantautorali che sfociano meravigliosamente in trascinanti pulsioni da dance floor (The hunt), riservandosi anche il lusso di approdare su inattendibili sponde acoustic folk a cui è affidato il compito di portare tutto, ancora una volta, in un altrove insondabile e incatalogabile (Lonesome song).
Senza dubbio da considerare tra le migliori produzioni dell'anno fin da ora. È questo che un orecchio sano – quindi curioso e desideroso di pur minimo rinnovamento – spera di trovare addentrandosi in territori ricchi di influenze variegate ma mai radicati in un'unica palude concettuale.
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