Un mondo onirico che si dispiega tra lo-fi e psichedelia, mantenendo comunque una vena folk cantautoriale da subito riconoscibile: nel suo ultimo album, Goodbye Dreamers, persian pelican recupera parte della sua storia musicale rielaborando i suoi fantasmi sonori e la sua realtà.
Quello che ci si trova ad ascoltare è un disco personale, delicato, una carezza malinconica che fa di synth e chitarre avvolgenti il suo manifesto. Per quanto incursioni del passato non possano fare a meno di rimanere incastrate tra le note, il fuoco che alimenta tutto si trova nel presente, in un’analisi che ha le sue radici in una nostalgia razionale.
Ogni riflessione sembra essersi trasformata in canzone, risultando spiazzante senza mai interrompere la fantasia.
Unconditional Dreamer da subito presenta le sonorità del versante dream pop che caratterizzeranno gran parte del disco, riprese nel ritornello di Who Gets Your Love, in cui però le strofe sono costruite su una linea melodica essenziale che sembra quasi imitare il battito di un cuore.
Che sia un lavoro che proprio su questa semplicità e allo stesso tempo stratificazione dei suoni gioca molto è innegabile. Un esempio è Illusion, in cui questo stesso effetto di miraggio viene trasmesso dalla musica, raccontando un mondo inafferrabile tra la concretezza e il sogno.
Nel brano di chiusura, Drifting, l’universo folk torna ad essere più presente, con chitarra e voce protagoniste, mostrando in una versione minimale ma non meno d’impatto un riassunto emotivo del percorso compiuto canzone dopo canzone da persian pelican.
Goodbye Dreamers non è solo un ritorno che convince: è fame di musica, di attesa di suonare ancora, e allo stesso tempo è un introspettivo saluto a un mondo che sembra sbiadire quando la luce torna a splendere. Un saluto ai sognatori, certo, che però non sarà mai totale e definitivo.
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