A volte non capisco. Non sento. Mi salvo. Etichettarsi per standardizzarsi ed omologarsi, che senso ha? Per me gli Steela non sono una band reggae, se il riferimento è all’attitudine consciuss e oltre-oceanica del genere. Non posso farci nulla. Io sono chiaro, tu? Per correttezza verso te che non comprendi le recensioni poco analitiche diciamo che: se la tua musica preferita fosse reggae-oriented allora snobberesti gli Steela per la loro ingenua visione troppo italica della cultura di Jah. Perché è un reggae non-reggae. Ma per dirla come quel mio amico di Trastevere: ‘sti cazzi. Non prendertela. Fa’ che la tua propensione intimista sopporti il più intelligente dei giri di carezze. Nuove inflessioni. Fatti coccolare. E non razionalizzare. Solo così il disco degli Steela potrebbe sembrarti un buon disegno della nu-generation in levare. Smetti di farti domande e rispondi. Il primo album dei salentorinesi è ben vestito, pulito e con pochi brufoli, giusto? Ignora che spesso suona come se Samuel dei Subsonica registrasse in studio con gli Africa, come io ignoro te. Salentini a Torino. Pugliesi a casa di Madaski, nel condominio accogliente di Casasonica. Un bel quadretto famigliare come nelle pubblicità dei detersivi. E tu non ci sei. E non ci sarai nemmeno quando in estate ci si incrocerà, infradito e joint alla mano, in qualche dancehall a Torre dell’Orso con gli Steela e Max Casacci. Non è una questione di etichette e marchi. Esaltati senza chiederti di che genere è. E stai bene.
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