E mentre fuori pioviggina e fa freddo tutto sembra un po' più sgradevole e fosco. Così le voci stereotipate di un televisore, di una strada in centro, di un pub all'inglese non bastano ad alleviare i sintomi di questo mio balbettio commovente. Né tantomeno basta Appleyard College, che anzi sembra mettercela tutta per trascinarmi ancor più verso gli spicci di questa serata incolore; e che così vada, meglio stare in buona compagnia e lasciare irrisolte questioni inafferrabili e troppo lontane per la mia voglia di essere trasportato dalla corrente.
Difficoltà di chiarezza, difficoltà di parola, difficoltà di stabilità. Voci appena sussurrate. Chitarre acustiche, carezzate/smosse come burrasca/dolce: la mano cade morta su corde banali e sole. Accenni timidi, arpeggi.
È silenzio. È intermittenza, è un corto circuito di poesia, tra volontà di immaginazione e commozione. Tasti di piano, violini, raffinatezze sonore. È un suono malinconico fino ad avvolgere cervella e corpo, crudele anche, effimero fino all'osso, lasciandoti nudo e incapace di capire il motivo di questo disperato rigurgito di parole ed immagini.
"Look at me" è un po' suono di gabbia, un po' di trincea, come a stare in piedi su un pentagramma che è campo minato. Note piccole, suonate a piccoli passi che non pestano mine né farfalle, ed ogni passo racconta la storia di un dramma diverso. Undici tracce che non vanno lontane da frammenti di elettronica, sinfonie di semplicità e raffinatezze minimaliste. È intimismo, una pacatezza liscia interrotta bruscamente da inciampi sonori che spezzano in modo aggressivo la quiete e l'incertezza del respiro musicale: temi stoppati forzatamente, grida spudorate, voci che interferiscono all'improvviso.
"All the time", "The wolves in the walls", "Creature": Luigi Porto ci regala questo, e più, nei teoremi di una notte qualunque, davanti alle vertigini del non capire e le parole senza fondo di un balbettio commovente ed umano.
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