Dilatazione
Too emotional for maths 2006 - Post-Rock

Too emotional for maths

Per tirare le fila e a dare un po’ d’ordine ai brani di “Too Emotional For Maths” i Dilatazione hanno chiamato Amaury Cambuzat. Uno che con la sua band più famosa – gli Ulan Bator – è riuscito ad andare davvero al di là – post? – degli schemi musicali odierni – rock? – fornendo una propria, lucida e a tratti geniale terza via alle instancabili sperimentazioni di Chicago e alle decadenti melodie di Glasgow. Se poi aggiungiamo Francesco Donadello – il batterista dei Giardini Di Mirò – al banco mixer, beh, tutto viene da sé. Nel senso che i nomi coinvolti sono autorevoli, la confezione interessante, le attese elevate.

Il problema, però, è che sembra quasi che “Too Emotional For Maths” di queste attese ne faccia una malattia. Come se si vergognasse di mostrarsi in pubblico, nascondendo la propria faccia – il proprio talento – dietro quella più rassicurante e riconoscibile dei Mogwai. Di cui i Dilatazione ricalcano pedissequamente le orme – persino nell’uso del vocoder – nell’iniziale “Wendy Carlos”. Non che siano gli unici a farlo, sia chiaro. È che i primi ascolti segnalano una vicinanza stilistica ai canoni del genere e nulla più. Come se il post rock non fosse, prima che pallida imitazione, un sacro furore che fa terra bruciata della nostra vecchia concezione di canzone, di musica, di emozione.

Una malattia, si diceva. O forse una mancanza di comunicazione. O di confidenza. Perché con lo scorrere del tempo l’album si apre. Accetta il confronto con l’ascoltatore, vince reticenze e timidezze, si rimette in gioco. E costringe a riformulare giudizi e pregiudizi, ché per fortuna solo gli sciocchi non sanno rivedere le proprie posizioni. Non che il ragionamento precedente cada come un instabile castello di carta sotto una bufera invernale. È che si sentono buone melodie (le due canzoni disperate e malinconiche cantate da Cambuzat, “Cendre In” e “Cendre Out”) che fanno vedere come la via di fuga sia dietro l’angolo. E infatti subito dopo la band si congeda finalmente dagli amici – Mogwai, Explosions In The Sky – e dai nemici – ehi critichino! – e si lancia nel travolgente finale di “Tutto Si Dimentica”. Che, per la cronaca, è il pezzo post rock più bello dell’anno. Un inno strumentale da vivere con i pugni alzati al cielo, la gola in fiamme ed il cuore in subbuglio. Una cavalcata a mille chilometri l'ora che in certi tratti sorpassa a destra le formidabili scie emotive dei 65daysofstatic. Un brano – ahimè – che si interrompe letteralmente all’improvviso, dopo sette minuti esaltanti, lasciandoci sudati e sbigottiti. Come un coito interrotto di cui nessuno sentiva il bisogno. Metafora perfetta di un album che, pur ben fatto, poteva dare qualcosa in più.

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