Con approccio originario ma rivolto a una salvaguardia animistica del qui e ora, Greco & LeBlanc sfornano un album tutt'altro che attuale ma estremamente sincero nelle intenzioni comunicative
Un po' come due vecchi amici che, dopo esperienze alterne e individuali, si ritrovano lungo il percorso e decidono di darsi appuntamento davanti a qualche birra, un po' di whiskey, un fuoco acceso, due chitarre, una penna e qualche foglio di carta bianca, Max e Michael, sotto le spoglie del duo italo-americano Greco & LeBlanc, pensano bene di mettere nero su bianco ciò che passa loro per la testa dopo anni e anni di scambi tanto culturali quanto fondamentalmente esistenziali. Decidono, quindi, di chiudere gli occhi, dimenticare temporaneamente il rispettivo luogo di presenza fisica sul pianeta e lasciarsi andare a un vero e proprio viaggio a bordo di immaginazione e consapevolezza storica relativa sia al proprio vissuto che ai mezzi a disposizione per raccontarne le gesta, tassello dopo tassello.
Tutto ciò non può che convergere in un album, Two boots, che non pretende niente da nessuno in termini di ricezione analitica, ma sprigiona tutto il suo potenziale e il suo distinto valore grazie alla forza del sentirsi vivi qui e ora, sulla scia di un passato fatto di esperienze vissute o anche solo sognate a cavallo di una passione viscerale – quella per il country folk dalle origini a stelle e strisce – incapace di arrestare il proprio impulso a fondersi con quanto circonda l'individuo in una realtà quotidiana della quale percepisce fin troppo i limiti e le implorazioni forzatamente avanguardistiche.
E allora echi 'dylaniani' in salsa agrodolce prossima a genuine caparbietà acoustic-blues originarie (All I know) si uniscono in gradevole matrimonio con deliziose e delicatissime predisposizioni cantautorali in cristallina scia country-folk (Crossing my heart), ma non esitano a convergere anche verso smaglianti lidi roots-americana (Travelling home, Loser). Evidentissime e certosine sono anche le specifiche inflessioni 'younghiane' facilmente e immediatamente avvertibili (First kiss ma, ancor di più, My poor old heart e Old scarecrow), ma non si fanno attendere anche ramificazioni semi-psichedeliche (Catskills), sottigliezze country-western (Campfire) e succulente esternazioni in prossimità di coniugazioni rock and roll (Take me where you want to go).
Niente di nuovo sotto il cielo contemporaneo ma rimirare le stelle (e le strisce), di tanto in tanto, non è cosa sbagliata.
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La recensione Two Boots di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2023-05-24 18:24:55
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