L'unico motivo per cui un esordio discografico riesca a fornire livelli di qualità generale così alti fin dal primissimo approccio potrebbe essere scovato quasi esclusivamente nel reale, vivo, vero, genuino talento dei rispettivi artefici, misto a una sempre salvifica dose di poliedricità intuitiva necessaria a capire quando è il caso – e quando no – di spingere sull'acceleratore della diversificazione in cerca di una personalità pressoché definitiva ma comunque già presente in un bagaglio culturale di enorme rispetto e riscontro tangibile.
La gradevolezza, il tatto e la maestria con cui il quintetto strumentale bolognese Haiku, in questo bellissimo primo album omonimo, riesce a trattare la non semplicissima materia di base è sintomo di grande ingegno stilistico derivante da una indiscutibile dote sia tecnica che relativa a una saggezza di gusto in sede di selezione delle scelte, soluzioni isolate dal marasma di idee incandescenti e sviluppate attentamente per estrapolare dal contesto di provenienza tanto una dimostrazione di estro creativo quanto una fondamentale predisposizione alla costruzione di cattedrali sonore in cui la bellezza sostanziale è madrina indiscussa dell'universo posto in essere.
L'amore viscerale e il senso del groove di matrice ampiamente jazz-funk emerge fin da subito come solida dichiarazione di intenti e corposo biglietto da visita in scia con un'aura progressive di stampo '70 mai difforme dalla proposta generale, anzi perfettamente in sincrono con freschissime e pregevoli intuizioni anche fusion nella disposizione delle architetture strumentali. Con un'apertura così avvolgente e trainante come quella riservata alla splendida title track vengono in mente strani ma interessanti matrimoni tra Weather Report, The Crusaders, Perigeo e Pat Metheny, abilmente supportati e, anzi, amplificati da corposi incrementi di groove funky di grande impatto cognitivo e umorale (Cupa cupa).
Ma le linee guida possono protendersi ora verso stupefacenti picchi world-jazz tanto magnificamente melodici quanto sperimentali in ottica chill (Two of us), ora verso travolgenti animismi tardo-soul (051) e ora ai confini di non celate intuizioni elettroniche di stampo vintage ma sempre molto attuali nella definizione di precise identità creative (Spirit dance). Alla luce di così tanta – e così ottima – carne al fuoco, non si può fare altro che lasciarsi trasportare da un flusso globale fatto anche di nobili intuizioni simil-post-indie-rock volentieri un po' zappiane (The chase), comunque votate a fondamenta classiciste (Nostalgic) ma sempre rivolte a un ascolto fluido e variegato in termini sia di sostanza di scrittura che di relativa trasposizione emozionale.
Gran bel disco e grande band a cui affidare le proprie orecchie sicuri di ricevere un adeguato trattamento sia per il corpo che per l'anima.
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