A questo mondo, specialmente al di qua dei confini nostrani, in molti scelgono di crogiolarsi beatamente tra i ranghi di generi cotti, mangiati, digeriti e rigurgitati. Un po' perché, semplicemente, è ciò che onestamente desiderano, ma un po' anche per non rischiare di incappare in tentativi di evoluzione – tanto personale quanto di genere – apparentemente innocui ma, di fatto, preponderanti per una continua necessità di commistione o apertura verso soluzioni non per forza divergenti ma, se non altro, capaci di condurre il nucleo di partenza verso soluzioni alternative che permettano di evitare un inutile ristagno e una deleteria involuzione dentro un sé artistico sempre più solitario e isolato.
Da questo deleterio pericolo di assoluta fossilizzazione primigenia ha saggiamente scelto di fuggire a gambe levate il chitarrista e polistrumentista veneto Alessandro Mercanzin, artefice di un progetto folk-rock-blues strumentale condotto sotto la ragione sociale Delrei e molto abile nel porre in essere sonorità ampiamente riconoscibili ma riviste attraverso vetrate purificatrici che lasciano emergere una forza e una potenza emozionale altrimenti inconciliabile con altre soluzioni di stampo classicheggiante.
La concezione percettiva con cui Mercanzin affronta la questione è talmente solida e reale da rendere la spettralità delle composizioni qualcosa di facilmente riconoscibile e condivisibile, per quanto rivisitata da un occhio esterno a una reale appartenenza storico-territoriale ma non per questo meno intensa di molte rappresentazioni parimenti considerevoli di matrice oltreoceanica. La sua personalissima visione del concetto di frontiera, però, si sposa in maniera decisamente ineteressante anche a un approccio pressoché fantascentifico (Stephen King e la Torre Nera?) che, per natura stessa del genere in questione, pone l'accento in maniera ancora più marcata su molti aspetti del reale per descriverli in una maniera altrimenti troppo difficile da ipotizzare. Ed è ciò che fa Mercanzin col suo modo di approcciare le sue stesse composizioni, cioè avanzando continue ipotesi, sì, derivative ma mai incatastate in sterili settorialismi passatisti, puntando ad arrangiamenti sempre più variegati e divergenti allo scopo di raggiungere, se possibile, una sorta di Graal che ridoni nuova vita tanto a sé quanto alle ipotesi di genere a tutto tondo.
Più che attraversare deserti o costeggiare rive fluviali da nuovo mondo, in un album come Desolation and radiation sembra di entrare in contatto e scrutare l'anima più sulfurea dei fantasmi di inquietudine che proprio in quella inquieta fetta di mondo, da millenni, dimorano, ammirandone l'essenza più recondita attraverso sguardi baconiani che, inevitabilmente, conducono a traduzioni audiovisive di taglio marcatamente lynchiano (Solitario, Ensenada, Mysterious traveler). Un mettere corposamente nero su bianco le proprie intenzioni, questo, che non distoglie l'attenzione – anzi la richiama – da certe suggestioni di derivazione Neil Young per fugaci – ma non univoci – esperimenti western di firma Jarmusch, anche se più attenti al formato melodico che al puro flusso sonoro in direzione onomatopeica (Into the wasteland).
Emerge comunque da questo, naturalmente, una cospicua predilezione di genere, anche se tradotta morriconianamente al di qua del confine nostrano (Country) mantenendo, però, anche un'ottica uditiva – neanche tanto – stranamente prossima al Vangelis di Blade Runner (Nowhere to ride), per quanto sempre incline alle origini di ogni possibile infatuazione country folk basilare (Far from here, Lonely night), non priva di elementi blues ma sempre di matrice gustosamente sperimentale tanto nei suoni quanto nelle rispettive influenze (Get lost blues).
Malgrado non si tratti di qualcosa di particolarmente nuovo in termini di sperimentazione con generi originari stravolti e rivisitati secondo chiavi di lettura strettamente personali, siamo di fronte a un lavoro di ottima caratura sia compositiva che di organizzazione e gestione sonora del tutto. Magari non tra le migliori prodizioni di quest'annata ma, senza dubbio, un lavoro da tenere apertamente in considerazione quanto a futuribilità sia stilistica che concettuale.
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