Ho messo il disco dentro. E sono stato in silenzio oltre un’ora. Né un’acceleratina lieve, né una tentazione di skip. Niente. Nemmeno un frammento di noia. E non me l’aspettavo – che è la cosa più bella. Proprio no, lo dico chiaramente.
Dicono – le voci argute della critica nostrana, sempre quelle – che la Rei, con questo disco, “si è ritrovata e rinasce”. Mi dite che vuol dire? E soprattutto ritrovata dopo cosa? Si, certo: “Primavera” (che qui non c’è), “Un inverno da baciare”, la logica commerciale, Festivalbar (vogliamo parlare di chi è finito al Festivalbar?), le hit alla radio. Si, si, lo so, grazie. C’ero. Ma se trovo un disco con un suono così spazioso e potente, arrangiato da applausi, che segue peraltro un lavoro come “Colpisci” che già virava abbondantemente, un disco che nel modo con cui affronta il passato fa dunque anche un po’ d’autocritica; se trovo tutto questo, ecco, io me ne fotto del resto. E crocianamente affronto l’opera, non la biografia.
Anche perché, tutto sommato, la Rei dalle sue ha un sacco di cose (una carriera certo altalenante, ma iniziata tanti anni fa all’insegna del jazz, Michael Breaker, pace all’anima sua, nei dischi, Todd Terry, le percussioni, il rapporto artistico col clan Sinigallia) che molti ignorano.
Detto questo, “Al di là di questi anni” - registrato in presa diretta – regala una voce maestosa, questa si ormai matura e “riscoperta”, attenta al tratto intensivo piuttosto che estensivo. E poi arrangiamenti lucidissimi, puliti, un gioco delicato di intarsi fra piano, chitarre sfilacciate, archi e percussioni: che trasformano una “Quello che non c’è” degli Afterhours in un inno epico, un irriconoscibile e straziante crescendo. Approcci che mantengono delle tracce più note la loro verve melodica (“I miei complimenti”, “T’innamorerò”, “Al di là di questi anni”, “Inaspettatamente” pare un pezzo dark) ma facendo loro fare un salto di qualità, turbinandole in un imbuto unplugged che, onestamente, ne fa altro – e di meglio. Quasi altre canzoni. Arrangiamenti che peraltro affidano alle percussioni un ruolo in parte differente e superiore da quello puramente ritmico, delegando ad intensissime code strumentali (“Noi”, “Inaspetattamente”) una sorta di incorniciamento di tutti i pezzi.
Insomma: sin dall’attacco delicatissimo – e liricamente sempre forte – “I miei complimenti” passando per “Fammi entrare”, forse una delle canzoni meno sanremesi di tutta la storia del Festival e via ascoltando fino alla fine, mi pare che Marina Rei abbia semplicemente (e salvificamente) deciso di fare quanto sa fare di meglio: un caro, vecchio e potente unplugged. Intrecciando voce, anima e djembe. Ormai - riconosciamoglielo - anni luce dalle stritolanti logiche di cui sopra. E a me chi cambia rotta piace.
Riuscito a meraviglia.
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La recensione Al Di Là Di Questi Anni di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2007-03-07 00:00:00
COMMENTI (6)
uffa
:=
...invidioso! :[
una volta quel pathos gli ha fatto fare dei dischi orribili ;-D
non ho ascoltato tutto il cd, ma la cover di "Quello che non c'è" manca di rabbia, quella rabbia che rende il pezzo memorabile!
é in perfetto stile marina rei, ma forse nella rilettura doveva approcciarsi con più pathos... no?
Condivido questo articolo dalla prima all'ultima parola. Seguo Marina da anni, da anni la sua musica accompagna la mia vita. E questo disco corona a meraviglia questo percorso. E apre le porte in maniera eccellente a tutti quelli che seguiranno.
pss.... Era Brecker... :D