Il secondo disco della musicista romana è un tentativo di riconnessione con sé stessa attraverso un flusso ondeggiante dall'ambient alla dance, ovattato da scenari sognanti in cui finalmente ritrovarsi
Comincia tutto con un sussurro. Non è solo nelle parole, sospirate in un terreno di mezzo tra il crooning e l'ASMR, come se quello che ci viene detto fosse qualcosa che nessun altro deve sentire, ma anche nei suoni: i synth diventano rarefatti, le drum machine si scompongono in un morbido picchiettio vario ma mai invasivo, i bassi aleggiano scurendo l'atmosfera senza però assalire. E tutto si racchiude in quella vicinanza evocata da Maria Chiara Argirò – musicista romana da una decina d'anni a Londra e diventata un volto riconosciuto della scena UK jazz recente – nel titolo del suo secondo album da solista: Closer, pubblicato per l'etichetta losangelina Innovative Leisure.
"I'm afraid to let go / 'cause how the hell should I know / what else of me would follow / and what would remain". Sin da questi versi di Light, traccia d'apertura di Closer, ci troviamo dentro alla dimensione introspettiva del disco: è un paesaggio onirico in cui spiegarsi, lasciare che le confessioni ovattate delle proprie insicurezze prendano la forma di un sogno tiepido, con una serie di immagini originate da ricordi del passato che si riescono appena a intuire in mezzo alla nebbia digitale da cui vengono avvolte. Al centro c'è sempre l'individuo, sospeso tra il suo essere attuale e il suo ipotetico divenire.
Non mancano gli episodi più uptempo in questo processo catartico: dopo i rallentamenti di Light e della title-track, Grow accelera il passo, assume i contorni di un'elettronica danzereccia, così come l'inquietudine crescente di Time fa da contraltare alla morbidezza malinconica di September: è un flusso di saliscendi emotivo che gioca a muoversi all'interno di uno spettro che va dall'ambient alla dance senza mai toccarne gli estremi, ma riportando sempre a una dimensione distante, esterna, come se prendesse il distacco necessario da ciò che si muove intorno per poterlo assorbire meglio. E, al tempo stesso, per portarlo al di fuori del proprio sé.
Closer, più che un disco, è un tentativo di riconnessione: in primis con la persona che abbiamo dentro, con l'ideale che vorremmo raggiungere e che inseguiamo ogni giorno, di conseguenza con chi ci sta intorno, inevitabilmente rapportato a ciò che possiamo diventare. Immergersi per mezz'ora nei suoi oceani sintetici, nei suoi versi frammentati dal beat è un passo in più verso il ritrovarsi.
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La recensione Closer di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2024-04-26 00:00:00
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