Fin dalle prime note, The Midnight Room introduce nel cuore della questione: questi non sono più i soliti Jennifer Gentle. Addio alle jam infuocate e deliranti, ai ricordi barrettiani – seppure malati e malsani. Qui regna l’incubo. Cronaca spirituale di un inverno in una papabile casa dei fantasmi nella profonda Bassa veneta, The Midnight Room si apre e si chiude con le litanie pseudosataniche di Twin Ghosts e Come Closer, e immette in un mondo di presenze oscure, creature malaticce e maligne uscite da un sogno di Ed Wood o Tim Burton.
Cupo, grottesco e vittoriano – fate caso alla nebbia di The Ferryman –, il nuovo disco del genietto oscuro noto a noi umani come Marco Fasolo – l’ha prodotto e suonato tutto lui, in solitudine, nel trapasso da una formazione all’altra – sposa la causa dei compositori e produttori pionieri e visionari che agirono tra la fine degli anni '50 e l’inizio dei '60: troverete le chitarre protodistorte di Link Wray, i suoni scarni ed echeggianti di Joe Meek, il cupo rimbombo voodoo di Screamin’ Jay Hawkins. Nomi poco noti oggidì, e in Italy davveromai. Ma con cui Fasolo ricama un elaborato insieme di trine, pizzi e merletti che, pur non avendo nessuna intenzione di parlare del mondo d’oggi, alla fine lo fa non meno del Teatro degli Orrori. Già, perché le creature fragili di The Midnight Room, nel loro dibattersi tra insalubri campi magnetici, con le loro disperate e timorose e maldestre richieste di aiuto, che rischiano di ferire proprio quelli a cui si rivolgono, memori di troppe ferite, cicatrici e suture, alla fine siamo tutti noi.
Davvero abile nel trasferire le atmosfere di A New Astronomy nella forma canzone – adorabili le marcette horror Telephone Ringing, It’s in Her Eyes, Take My Hand, Electric Princess e Quarter to Three –, The Midnight Room parla la lingua della più drammatica attualità sotto un’apparente patina di arcaismo . E alla fine, pur partendo da presupposti totalmente differenti, in modo molto diverso e ben sottotono, supera i confini della provincia Italia e raggiunge d’un balzo l’hype del momento in Inghilterra: i Klaxons. Musicalmente non c’è molto in comune, eppure Klaxons e Jennifer Gentle respirano la stessa atmosfera magica, maligna e malata, espressa in forme che dovrebbero essere gioiose e alla fine risultano macabre. Entrambi sono epifenomeno del malessere oscuro e profondo del nostro quotidiano Occidente. Una festa alla ketamina.
Come si sa, i Jennifer Gentle disturbano: o li si ama o li si odia. Con questa recensione non convincerò nessuno che non possa essere convinto dalla musica nuda e cruda – e non voglio neppure farlo, né sarebbe giusto. Piacciano o non piacciano, ci sono delle cose indiscutibili: c’è una band che non segue le mode, che segue un suo valido percorso artistico, che parla un linguaggio internazionale senza essere in ritardo con questo o quel trend – semplicemente perché vive una dimensione tutta sua. In questo, i Jennifer Gentle ci stanno indicando una strada: un metodo – e non un genere – da seguire.
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