Dice che guardare al passato è roba da vecchi, l'inizio della fine, dice che si diventa nostalgici necrofili e non si riesce più ad apprezzare il Nuovo che avanza e i suoi giovani paladini perchè non li si capisce e sopratutto perchè non li si vuole capire.
Certo, il nostro mondo è ben strano, la nostra un'epoca ribaltata nella quale anche le semplici categorie “nuovo” o “vecchio” hanno perso l'orientamento e ci troviamo ventenni che si comportano come fossero nati nei '50, settantenni che nei '50 ci sono nati per davvero e che ben si guardano dal mollare anche un solo centimetro del loro territorio o altri che avevano attaccato le chitarre al chiodo ma ci hanno ripensato.
In mezzo ci sono gli onesti e gli entusiasti, quelli che amano visceralmente, coloro per cui “passione” significa ragione di vita e 'fanculo al resto: in quella terra di mezzo ci sono i Claude Cambed, quelli che hanno passato la vita a scrivere canzoni perchè era l'unica cosa da fare e ne hanno scritte così tante che sono diventati maestri. Non si sono mai permessi il lusso della presunzione e hanno sempre lasciato il trono ai loro idoli, limitandosi (ma sarà poi vero limite?) a imparare, a osservare, a cercare di carpirne i segreti per farli propri, perchè in quello trovano la gioia vera.
Una pop song può essere gioia pura, e d'altra parte scriverne una può essere più difficile che creare un'intera sinfonia classica o costruire un palazzo. Hai voglia quindi a inventare una perfetta canzone di David Bowie o dei Kinks o a reinventare i Led Zeppelin senza scadere nel ridicolo, hai voglia a creare apocrifi così perfetti da far invidia agli originali, tipo Giotto con Cimabue, che Andy Partridge sentendo “Modern law” si chiederebbe se per caso l'alzheimer stia avanzando, giacchè proprio non ricorda quando l'ha scritta.
“Happygonestreet” è in tutto e per tutto un disco – operazione, dal packaging, dal nome (geniale) del gruppo The Now che accompagna il leader (al secolo Claudio Cambetti, bresciano), passando per il titolo stesso, con la parola “epigono” a giocare a nascondino, fino alle guest star di ogni canzone indicate nelle note, tali “David Howie”, “Andy Cartridge”, “Robert Flower”, “Jimmy Book”, nonché Giovanni Ferrario, Lorenzo Corti e il jazzista Luciano Poli.
Un'operazione che si fa Opera, remake che si fa creazione, il rock britannico dei sixties che che luccica più vivo che mai perchè libero dalla pesantezza del revival, che qui viene eluso giocando meglio, molto meglio, le stesse carte. Un disco che aumenta la goduria ad ogni ascolto, che catapulta in un'era musicale talmente dorata e influente da non temere la vecchiaia o la morte, che rimette le cose al loro posto e insomma ci ricorda perchè, nel 2007, siamo ancora qui a scrivere la parola “Rock”.
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La recensione Happy Gone Street di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2007-03-20 00:00:00
COMMENTI (2)
grazie.
è proprio un bel disco questo.
:)
bella rece, davvero...finalmente ti leggo caro bresciano...
a presto...