Ci si chiedeva cosa sarebbe stato il nuovo disco di Giorgio Canali, dopo il sostanziale unicum in due parti costituito dai due precedenti album divisi con i Rossofuoco. Due dischi che dal primo all’ultimo istante scandagliavano la realtà con uno sguardo tagliente e sferzante, attacco costante come prima forma di autodifesa. Ci si chiedeva dunque come sarebbe stato il dopo, perché il fiato prima o poi viene a mancare, quando si corre. Ed ecco qui la riorganizzazione, ecco la boccata di ossigeno.
Ossigeno sporco, ovviamente. Perché allentare la tensione non vuole dire stemperarla, ma semplicemente cambiarne la declinazione. Dopo l’invettiva, è il tempo della rabbia: se i dischi precedenti osservavano il presente da parte di un noi, in “Tutti contro tutti” emerge con forza l’individualità. Emerge la voglia di Canali di capire non solo ciò che lo circonda, ma anche lo stesso osservatorio da cui si pone: ecco quindi che la traccia di apertura si interroga sulla rabbia che ha portato alle precedenti invettive, dedicando a se stesso quella chirurgia interpretativa finora riservata all’esterno. Diretta conseguenza di questo mutamento di prospettiva è uno sguardo più disincantato e meno aggressivo, ma non per questo più conciliante. È il caso di “Falso Bolero”, dove l’io osserva dall’esterno e mette in allerta, ma non si butta in trincea, distanziandosi così da “Alealè”, traduzione dal francese di un pezzo del primo disco solista di Canali (“Che fine ha fatto Lazlotoz?”, 1998). “Alealè” contiene i passaggi testuali più incisivi ed efficaci (“E così accade che / la libertà futura / è un pompino in tv / senza censura […] Accade che la libertà / è partecipazione agli utili”), ma di fatto è anche il brano che chiude una tripletta iniziale più che riuscita, dando il via ad un prosieguo non sempre all’altezza. Perché se in “Falso Bolero” il distacco non comportava una perdita di lucidità testuale e musicale, il discorso cambia per “Piccoli mostri crescono” o “Non dormi” o “Canzone della tolleranza…”, canzoni poco a fuoco e a tratti prevedibili. Il disco ha ancora almeno due sussulti d’orgoglio (“Swiss Hide” e “Settembre, aspettando”, quest’ultima una cover dei Noir Desir dell’amico Bertrand Cantat), ma non riesce a mantenersi per più di un pezzo sui livelli dell’incipit.
Quel che ne deriva è un disco senz’altro forte e sentito, ma non del tutto riuscito: il comune collante di un odio inestinguibile per tutto ciò che rappresenta l’istituzione non riesce ad evitare che qualche filo si allenti, andando a configurare l’intero lavoro come una tappa di transizione. Dopo l’attacco la riorganizzazione, si è detto in apertura. C’è ancora da capire se Canali intenda ritagliarsi il ruolo di cronico pessimista incazzato o se sia in grado di togliersi da quella che rischia di essere una gabbia autoimposta per cercare una poetica a più ampio raggio. Nel primo caso avremmo una chitarra e una lingua in grado di ferire raccontando quanto ci circonda: non sarebbe poco, ma nel secondo caso avremmo una figura unica e preziosa.
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