È un disco di Daniele Silvestri. Semplicemente. Uno stile che non si è perso nei cinque anni di assenza, sospeso tra la giocosità intelligente della sanremese “La Paranza”, le potenzialità da tormentone dotato di senso di “Gino e l’Alfetta” e l’introspezione di “Sulle rive dell’Arrone”. Ma anche tra la prevedibilità fuori tempo massimo di “Che bella faccia” (ennesimo pezzo su Berlusconi) e l’insipidezza di “Il suo nome”. Un disco che oscilla tra pezzi ottimi e pezzi del tutto prescindibili, senza riuscire a fare il colpaccio che forse ci si aspettava dopo la lunga gestazione: perchè, paradossalmente, questo sembra un album interlocutorio, che estremizza la leggerezza di molti brani del disco precedente, aggiungendovi sonorità che rimandano anche a “Il dado” (album uscito esattamente dieci anni fa) e portando definitivamente a galla la passione per la disco anni settanta. Un lavoro eterogeneo che rischia di sconfinare nella dispersività, vittima di un equilibrio non ottimale tra i singoli brani. Da sempre Silvestri unisce pezzi importanti con brani minori o divertissement e la giustapposizione tra questi elementi è croce e delizia dei suoi lavori fin dagli esordi. Questa palese distinzione era finora netta, mentre qui viene a mancare. Apparentemente la perdita di categoricità parrebbe essere un fatto positivo, ma in realtà il risultato è una generale deriva verso una zona grigia in cui tutto si mescola e si confonde, senza creare una sintesi superiore, bensì annacquando i modelli di partenza. Ecco dunque che gli episodi migliori sono quelli che si stagliano con più forza sul panorama generale: su tutti la già citata ed intensa “Sulle rive dell’Arrone”, ma anche “Ninetta Nanna”, nenia in romanesco dai sentimenti quasi jannacciani, e “A me ricordi il mare”, duetto con Andrea “Bove” Leuzzi degli Otto Ohm. Da segnalare anche il fatto che il politico si è ritirato nel privato, con la dimensione sociale ad emergere tra le righe nello sberleffo sanremese e in “Love is in the air”, in cui, meno proditoriamente e più umanamente del solito, più che la puzza e lo schifo che aleggiano in Italia, si teme “il rischio di abituarsi”.
Nel complesso circa la metà dei pezzi convince pienamente, ma questi stessi brani vengono in fondo depotenziati dalla vacuità dell’altra metà, fino ad un’impressione globale solo di poco positiva. Paradossale davvero, ma è un disco interlocutorio.
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La recensione Il Latitante di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2007-04-06 00:00:00
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