Lo ska non è il mio genere, davvero. Non tanto per la musica in sé, un genere retrò le cui possibili evoluzioni non riesco davvero a intravedere, bloccato in un passato senza sviluppi, ma tutto sommato sempre gradevole per far festa. Quello che davvero non sopporto dello ska è l’attitudine barricadiera eredità dal revival del genere avvenuto in Inghilterra nei primi anni 80, che ha sposato protesta sinistrorsa con la filosofia rasta del reggae, che è quanto di più intollerante e totalitario esista, giacché dietro a tante tirate, anche sacrosante, sulla corruzione di Babylon c’è un moralismo tipico di tutti i monoteismi, con tutto il bel corredo di odio per le donne, omofobia, repressione delle libertà sia di pensiero che sessuale (avete mai notato come le due cose vadano assieme?).
I Pomata, corde e pelli di Piove di Sacco, paesone in provincia di Padova con una vivace scena locale, e fiati di Torino, sono una onesta band ska core, che conferma in questo secondo cd quanto già mostrato nel precedente “In coda”: canzoni frizzanti e gioviali, attitudine da festa fra amici, un candore adolescenziale (anche se i nostri han passato l’età), che – come già scritto dal nostro La Placa – sono le qualità migliori del gruppo.
E anche il loro tratto distintivo del gran calderone ska. Io, sinceramente, non ne posso più di gruppi ska superimpegnati che zompando in levare lanciano poco credibili proclami di rivoluzione, quando è chiaro che tutti vogliono solo farsi canne e fighe. Ecco, nel candore dei Pomata c’è proprio la rinuncia a tutto questo stantio immaginario, canne comprese. C’è una gran voglia di sole, mare, belle ragazze, baci dalla saliva fresca, perfino collegiali grigliate sulla spiaggia. E c’è un cantante dalla bella voce calda che ricorda quella di Mao, begli arrangiamenti, bei suoni, fiati che si permettono anche leggeri assoli da balera jazzata (“La mia ragazza”). In sostanza, un immaginario lieve, pieno di rimandi consci alla parte più spensierata degli anni 80 (date un’occhiata al loro Myspace), e inconsci alle beach song dei 60 (davvero, ed è un complimento, l’equivalente odierno di Edoardo Vianello). Una specie di Finley ska, col pregio di essere autentici e per nulla costruiti. Potrebbero regalare soddisfazioni economiche all’industria, solo se se ne accorgesse.
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La recensione Papaya Paloma di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2007-09-10 00:00:00
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