A questo punto lo sai. In un brutto-paese di rap fiacco e falso, che a confronto l’albero della polenta è una verità assoluta, i Club Dogo sono una realtà di successo. Vincenti tanto quanto un pelo di figa in questa stronza società. E lo so che vorreste essere come loro, vi piacerebbe fare un rap spaghetti-gangsta e non esser presi per pagliacci, ma non è così. Voi siete dei fanghi di merda insicura col microfonino, loro sono tre merde di rapper col portafogli che comincia a riempirsi di quello che fanno. E per il dinero si diventa animali. Milano gli sbava dietro. “E se Costantino nell’I-pod ha il Dogo, lo spinge a Coco che lo spinge alla Lodo”. Mentre la città della Madunnina è cosparsa di neve di Colombia, con “Vile Denaro” Don Joe, Guè e Jack La Furia provano ad impossessarsi della rap-nazione. E non ci riusciranno. Come non ci è mai riuscito nessuno. Per le superfluità che nascondono dietrologismi di provincia, mc spaventati che spompinano i cronisti dell’ovvio. Il risultato sarà positivo, ma non devastante come l’effetto che hanno avuto su Milano. I Club Dogo se la scopano Milano, la mettono in tutte le posizioni. La possiedono. E lei gode. E tu godi. Perché dicono la verità così com’è. Stronza e maledetta. Anche se “Vile Denaro” non supera la potenza di “Penna Capitale” diventa un ottimo step avanzato di cool-shit all’italiana. E a nessuno frega che dietro ci sia una major, nonostante il featuring con Daniele Fit, Rif o come-cazzo-si-chiama, pesi un po’ sul culo dei fans dei tre milanesi. Per “Vile Denaro” l’orizzonte si amplifica. Esplode. Un misto di accuse ad un’attitudine politica marcia e discorsi generalisti con i controcazzi. La verità sta nelle cose che nessuno sa, ma poi alla fine è la tua verità che ti salva. Ragionamenti generici, che è l’Italia che ci ascolta ora. Con i linguaggi di oggi, quelli nostri, e i modi di fare di questa cazzo di generazione ben diversa da quella dei cinquantenni arrapati che fanno i condottieri dei miei coglioni. Qui la linea è quella dei giovani distaccati da una razza di political junkie avariata. Tu sei come nel disco dei Club Dogo. Può non piacerti il pezzo con Stylophonic e “Ora che ci Penso”, ma il resto spacca. E’ attualità scritta così com’è. Suoni che hanno studiato tutte le lezioni della Stone Throw ma che non disprezzano le chewing gum dirty south o le sfumature di Philadelfia. Definitive Jux e italian classic rap. DonJoe è il migliore produttore hip hop della nu generation italica. Cazzuto e riconoscibile. I Dogo suonano poesia grezza in rime, come quella che Parini o Manzoni avrebbero scritto oggi, qui. Consapevoli di cos’è là fuori. Con espressioni e punti di vista reali. Poi censurategli pure la single track, ma se vi scandalizza la parola puttana, allora chiedetevi cosa fa il 98% delle vostre splendide fidanzatine nei club il venerdì sera. Fanculo. L’amore non è quello dei film di Muccino. Definire un disco così è complicato tanto quanto stabilire se l’effetto dell’oppio è appena cominciato o sta per finire. Qui non si parla di scientismo genetico-sonoro, se si apre bocca si rappresenta una verità che fa rumore. Si porta un messaggio nelle strade. E poi nei club. Ovunque. Lasciare un segno e scappare. Poi butta via tutto e torna da re. A quel punto ne sarai certo.
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