A mio avviso, se al giorno d’oggi si vuole essere cantautori, è necessario trovare una propria cifra personale che possa segnare un minimo scarto rispetto al già detto, cantato e suonato. Nel caso in cui si scelga invece di essere classici si deve possedere una forza autorale tale da non venire schiacciati da improponibili confronti. Fabrizio Zanotti finisce per inciampare proprio in quest’ultimo ostacolo.
Il tema più forte del lavoro è lo sguardo al conflitto civile che ha devastato i Balcani negli anni novanta, ricordo che passa attraverso le fotografie contenute nel booklet e nelle immagini dure evocate da “A Mostar”, pezzo doloroso raccontato prendendo su di sé il peso della narrazione. Si tratta del brano migliore del disco, che trova però contraltare in passaggi ben poco entusiasmanti, come “A piene mani” (clone de “La domenica delle salme” di Fabrizio De Andrè, nume tutelare citato poi direttamente nell’incipit dell’ultimo brano) o la strasentita “Controvento” (”Siamo terra, sole, pioggia e vento / come l’aria sempre in movimento / due stranieri in cerca di un copione / sempre in viaggio ma quale direzione?”).
Il riferimento più calzante è probabilmente Cristiano De Andrè, con il quale Zanotti condivide una sorta di incompiutezza artistica che lo porta a perdere più volte il controllo della propria musica: è il caso della sciatta “Barbara e il sesso” (tentativo di pop ultra-mainstream) e dell’estremo opposto, “Fumo” (tentativo sperimentale per testo e inserti elettronici dagli esiti poco felici). Su tutto, aleggiano poi scelte di arrangiamento quantomeno discutibili, tasto dolente di molto, troppo cantautorato. In sostanza si può sperare in maggiore coraggio da parte di Zanotti: quel coraggio messo in evidenza in “A Mostar” e poi dimenticato.
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