Ho iniziato a credere che Bob Corn fosse un genio quando ho sentito la sua cover dei Belle & Sebastian. Suonata da lui diventa essenziale. Scheletrica. L'arte di riassumere tutto in pochi accordi.
Fa freddo. Piove. Sono su un pullman. Il primo dopo tanti non funzionanti o fuori servizio. Milano sembra disabitata.
L'inizio di "We don't need the outside" è come tutti gli inizi: una coppia. Tizio e Ahlie. Raccontano storie. Persone che si incontrano, che si piacciono. Piccoli paesi sconosciuti. Case. Candele. Nebbie da lasciare fuori dalla porta. Le paure si allontanano. Comincio ad immaginare. Seguo la musica. Mi si riempie la testa di nomi: Johnny Cash, Devendra Banhart, The Mountain Goats, Sodastream, Papa M. Ma pian piano se ne vanno tutti. Restano solo canzoni belle.
Avanzo poco, fino al primo capolinea, l'autobus si ferma e si spegne. Si riaprono le porte. Entra il freddo. Entrano due marocchini che litigano forte, coprono la musica. Quando parte "The hottest autumn ever", però, mi guardano e abbassano la voce. "Rose in my past" e restano zitti. Come se l'arrivo di un angelo li avesse stupiti. Io mi addormento e sogno una torta calda e mio padre che mi dice "good night" (come a fine disco). Poi inizia "Reds between blacks". Due soli contro il mondo. Noi siamo due rossi, loro sono tutti neri.
Il mio pullman si rimette in moto. Le gocce sul vetro iniziano a tremare. Le gocce c'erano già prima che salissi? C'erano già queste canzoni prima che io nascessi? E' come se le conoscessi da sempre. Come se mio padre me l'avesse cantate quando voleva farmi addormentare. Ed è strano: mio padre non sa l'inglese e non conosce il folk. Poco importa. Davvero. Il più è che qualcuno – prima o poi - me l'abbia cantate. Trasmettono una calma sorprendente. Un caldo. Meglio di Sam Cooke.
Continuo ad ascoltare. Mi avvicino a casa. Davanti al portone mi dice nuovamente "good night". Non posso addormentarmi adesso. Rimetto "My sweet, we're bright". Nevica. Piango. Nevico. Arrivo in casa, c'è una torta calda e mio padre con una chitarra in mano. Sorride. "Thanks for fire on my heart" gli dico io. Lui capisce.
E' un disco bellissimo. Essenziale. Che vi riempirà la testa e poi se ne andrà. Come un padre. Vi terrà al caldo. Vi farà vivere altrove. Vi farà bene. Tenetelo tra le cose più care.
---
La recensione We don't need the outside di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2007-11-26 00:00:00
COMMENTI (9)
concordo.
Fischia, l'inglese Bob. L'inglese !!
Reds AMONG blacks
E la pronuncia !
Sei italiano no ? E perchè non canti in una lingua che sai bene ? Lo dico per te eh.
no bob corn no...
:=
due gran maroni, altrochè...
io tra i generi ci aggiungerei anche country
è col cuore in mano...com'è bello che siano e come è quasi commovente leggerne
ma quanto è bella 'sta recensione?
grande sandro, m'hai fatto venire voglissima di sentire questo disco!
:)
disco bellissimo, delicato e romantico
se non "meraviglioso"
Grande Tizio!!
Un cantatutore con un cuore grande come la sua barba! :):)