Ascanio Celestini con le parole ci sa fare. Le prende, le rivolta, le incastra, le capovolge in un flusso continuo. Chi l'ha visto a teatro conosce l'avvolgente effetto di stordimento provocato da una narrazione senza pause, che attacca da tutti i lati con ironia e drammaticità. Trasferire queste sensazioni in pezzi di una manciata di minuti non è facile. Ma qui entra in campo il talento. E allora i quattordici pezzi (più uno) del disco non perdono nulla della forza alluvionale di Celestini, andando anzi a costituire un lavoro che si fa (e si farà) punto di riferimento in ambito cantautorale. Perchè finalmente si è di fronte ad un disco che riesce a guardare tematiche sociali con un occhio credibile e non (troppo) retorico, basandosi sulla forza di un'ironia testuale che riesce a fare da contrappeso anche ai passaggi più intensi e drammatici.
Pezzo manifesto è l'incipit del disco, cinque minuti densi di parole in cui si descrive con toni accoratamente surreali ciò che sarebbe potuto essere ma non è stato. I motivi di una rivoluzione mai avvenuta sono descritti con precisione nei pezzi recitati di "Il popolo è un bambino", che compongono l'ossatura del lavoro e ne danno la chiave di lettura, ovvero la consapevolezza di essere manipolati e eterodiretti in quanto gente, in quanto popolo. Con tanta compassione e amore, ma con poca speranza, se non quella da sogno del primo brano. Il resto è una carrellata sull'oggi che non concede nulla all'illusione perchè parte dai buchi neri di ieri: ogni miglioramento è da conquistare con fatica, come testimoniato dalla title-track, che descrive con dovizia di date la lotta di un gruppo di precari di un call center romano. Stessa rabbia disillusa che serpeggia in "Poveri partigiani", che ricorda la "Lettera da lontano" di Jannacci nel passare in rassegna figure e persone che non sono e non dovrebbero essere trasformati in personaggi. Certo, qua e là c'è qualche scivolata nel banale, in particolare in "Cadaveri vivi", in cui Celestini cade nella tentazione di un inno di facile presa. Anche in questo caso, però, riesce a salvarsi con le parole: così nella lunga lista di identificazione con emarginati o minoranze (“Noi siamo anarchici, noi siamo spastici, noi siamo quelli col cesso a parte / noi siamo brutti, sporchi ma buoni, che detto in sintesi significa coglioni”) spiccano elementi sghembi come quello appena citato del “cesso a parte”, che rimandano diritti al migliore Rino Gaetano, usato come lente per distorcere e piegare Fabrizio De André, riferimento principale che viene rispettato proprio perchè tradito.
Sono tante le angolazioni da cui si può affrontare il disco, è inutile invece dilungarsi oltre. Necessario forse ribadire la convinzione che si tratti di un disco che non potrà essere ignorato perchè segna un’ottima sintesi tra sguardo e memorie. Fotografia perfetta per pregi e difetti di un intero modo di fare canzone.
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La recensione Parole Sante di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2007-12-17 00:00:00
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