La Capra Gialla si evolve, e non è più così semplice definirla post rock. Perché “Chez Dédé” è diverso. Non più la solita sbobba di depressioni virate in tonalità minori (malattia che peraltro non ha mai toccato i Capra più di tanto). Ma qualcosa di diverso. Di più elaborato e orchestrale. Ché il post rock è morto solo nella testa dei cialtroni senz’arte né parte (chi ne parla e chi lo suona come se stesse andando in ufficio a timbrare il cartellino della banalità). Questo non può essere un genere musicale come tutti gli altri. È un parassita che ti divora l’anima e che ne vuole sempre di più. È un impegno costante e sfiancante, che per la sua stessa sopravvivenza deve andare oltre.
Non ci può essere un giorno uguale al precedente, nel post rock. Il post rock, quello vero, è passione al 200%. È un suono che trae la propria forza dalla sua precarietà artistica. E ciò che lo distrugge lo rende soltanto più forte. Come “Chez Dédé”. Che insedia bassi dalle linee arrotate. Che sforna arpeggi che sono ormai parenti lontani di quelli che hanno fatto scuola tra tante Fender in giro per il mondo. Che libera i ritmi dai freni inibitori per sfoderare accelerazioni da capogiro. Gli Yellow Capra perdono progressivamente ogni connotato da band classica per trasfigurarsi in una piccola orchestra indie. Quasi come se Angelo Badalamenti rileggesse a modo suo le musiche dei Mogwai. Tentazioni post in salsa noir. Da Dédé le emozioni sono di casa.
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