Nomen omen, dicevano i latini. Se davvero fosse così sarebbe un problema. Ché i Venezia di romantico e lagunare non hanno proprio nulla. E se proprio dobbiamo infilarli da qualche parte nella città dalle strade fatte d’acqua, beh, opteremmo per qualche angusto e seminascosto canale secondario.
I Venezia, insomma, sono una sorpresa. Cavalcano involontariamente l’onda – il prepotente ritorno del suono Touch & Go – che negli ultimi mesi ha riportato al centro dei nostri cuori una musica che pareva morta e sepolta nel cassetto dei ricordi dei bei tempi che furono. E mostrano una verve compositiva che a Chicago se ascoltassero questo cd autoprodotto ne farebbero un manifesto di stile e potenza, da studiare a fondo per capire il “nuovo/vecchio” indie, intuirne la portata artistica e prevederne gli auspicabili sviluppi o le ipotetiche involuzioni.
L’anno pare essere quello giusto, dunque, tanto che i Venezia si candidano assieme ai Diane And The Shell quali campioni italiani di un certo modo di gestire il rapporto (e il conflitto) tra armonia e discordanza. La band, infatti, traghetta la musica noise (post? psycho?) verso orizzonti squadrati, matematici, complessi. Porta in dote una serie di brani che dal vivo ci piace immaginare mentre mettono in scena l’inferno in terra. Lima le asperità con melodie figlie dell’indie anni Novanta. E sforna un disco che è un terremoto strumentale fatto di note, dissonanze e nostalgia canaglia. Brividi lungo la schiena e sudore che riga di emozioni il viso. Poderosi Venezia.
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