“An Ordinary Man”, un uomo qualunque, un menestrello come tanti che non riesce a staccarsi dalla sua musica. Questi quattro pezzi ti crollano addosso come un macigno, altro che uomo ordinario. Se pensiamo che Davide Combusti ha 28 anni e ha aperto i concerti di mezzo mondo, da Lou Barlow a Sondre Lerche, dai Deep Purple a Amy Winehouse, che anche il manager dei Radiohead si era interessato a lui, allora conveniamo tutti sul fatto che di ordinario non c’è proprio nulla.
Questo ragazzo è riuscito a mettere insieme tanta materia, intorno ci ha disegnato un’atmosfera che porta la sua firma, inconfondibile, ma che cambia continuamente, a volte anche nello stesso brano. Dalle finestre arriva luce sempre diversa e cambiano i colori delle pareti, ma la casa rimane la stessa. E’ un po’ come quando chiacchieri per ore, non ti accorgi che nel frattempo dal caffé passi alla cena, e dalla cena alla colazione, e te ne freghi del tempo perchè dentro, intanto, ci è passato di tutto, hai toccato milioni di argomenti diversi sapendo che un filo conduttore c’è. Magari aspetti solo un bacio, e aspettare, in fondo, ti piace.
Intro con arpeggi da cantautore ammaliatore, melodie semplici e affascinanti. Schitarrate più energiche, qualche colpo di synth, attacco in tre quarti che rimescola le carte in tavola. E in certi passaggi ci senti tanto Jeff Buckley, ogni tanto ti viene in mente anche Elliot Smith e tutti i grandi nomi che gli hanno cucito addosso e che ci sono, è innegabile. Poi, però, arriva un punto ben preciso in cui ti accorgi che questa voce odora di una città ben precisa. E quando Davide canta I’m-a-mistake scendendo di nota in nota, entra in scena non New York, non Los Angeles, nè tanto meno il Texas o Chicago. Arriva Roma, e si sente, forse perché lo sappiamo che arriva da lì, che ha suonato in tutti i locali che frequenti, che conosci persone che lo conoscono bene. Però non c’è niente da fare, da “Mistake” in poi ti vengono in mente dei flash di Roma con la pioggia, che è bella anche se è bagnata, incasinata, umida. Ed è strano, perché nel primo pezzo ti sentivi come in un film di Michel Gondry, ti immaginavi il Messico e qualche campo sterminato con sterpaglie aride mentre sotto c’erano trombe e accenni di latin con un tocco elettronico. Hai pure pensato agli Ojos de Brujo, poi non c’è stato più tempo, sono partite le chitarre e quasi ci sentivi Thom Yorke, dietro.
E alla fine torni a casa, inevitabile. Torni a Roma, torni ‘sulla nostra collina’ (“On our Hill”) e pensi che allora il filo conduttore c’è davvero dietro a questi brani, che dall’amore sofferto e l’indifferenza si torna in collina, a casa.
Non è uno scherzo farci stare tutte queste cose dentro a un piccolo Ep come questo. The Niro con una leggerezza che quasi fa invidia ci riesce, come quelli che riescono a partire per un viaggio lungo con una valigia minuscola, ma dentro c’è tutto. Tu ne hai quattro di valigie, ma ti sei dimenticata lo spazzolino.
Qui dentro c’è tutto.
E allora continua pure a chiacchierare, tanto il bacio prima o poi arriva. Se la partenza è questa, arriva per forza.
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La recensione An Ordinary Man di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2008-01-21 00:00:00
COMMENTI (3)
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Nice site!
proprio bella questa recensione Saretta... sognante e scorrevole, bella bella.. e ora vedo di cercarmi qualcosa.. che mi hai fatto incuriosire.:):)