Lontani nel mondo come una persona cui si vuole bene e delicati come la più struggente delle lettere mai scritte. Fosse solo una Polaroid potrebbe ridursi ad un ricordo affascinante e sbiadito. Invece, come uno spiffero d'aria dalla finestra in questo inverno duro ma senza la necessaria rigidità, i Sense Of Akasha entrano in casa e ti chiamano fuori. Inspira/Espira. Loro che fuori dai giri e quasi fuori dall'Italia vengono, Trentino Alto Adige, avevate mai sentito parlare di Brunico? Io solo durante il calcio d'agosto quando i giornalisti raccontano l'ennesimo barile di miliardi distribuito nel mondo dal patron petrolier Moratti per rinforzare l'Inter carrarmato in ritiro precampionato.
Ma non è certo il petrolio uno dei quattro elementi della terra (terra, acqua, fuoco e aria) che l'akasha sintetizza in sè, elemento etereo secondo tradizione sanscrita il cui senso questi ragazzi cercano, mentre chiedono e si chiedono chi comandi ("People Do Not Know Who Rules" è il titolo del disco). Gli elementi che diventano uno; ecco il raro rituale dell'esistenza che questa band, a metà fra i territori indietronici teutonici e quel luogo dell'anima che è il post-rock, performa, anzi, incarna in questo disco. Cittadinanza italiana, nomi propri in tedesco, lingua inglese nel canto, ascolti internazionali e una evidente tensione interna nei confronti di band alternative italiane anni 90 (come i C.S.I) la cui mancanza è oggi drammatica. I Black Heart Procession rivisti in "Made Of Dirt", il Canada dei Broken Social Scene in "Spin", "The Subject Himself" che ricorda quanto di importante i Giardini di Mirò hanno lasciato, il singolo "Make Me Real" che accarezza come solo i Notwist hanno saputo fare, "Come 2 Realize That" che cita i Mogwai fin dal titolo.
Ma, fondamentalmente, più di tutto: i Sense Of Akasha.
Che rinchiusi in una vecchia stazione ferroviaria lontana dal mondo, isolata come la capocchia di uno spillo infilato nelle vene di un salice secolare, in mezzo ai prati che quando c'è il sole esci e vieni travolto dalla luce, arrivano al quarto album in sei anni. 63 minuti di squarcio nel velo di Maya che richiedono tempo e reclamano spazio. Se la vita non ve lo concede, provate ad ascoltare questa Musica mentre percorrete da soli lunghi tratti di strada, a fiancheggiare la varietà di una terra che si modula a volte accarezzandovi il cuore a volte chiudendovi come in gabbia. E' così che mi sono ricordato del perché l'Italia per quanto riguarda il post-rock è una nazione d'incanto. E del motivo per cui questo accade: che siamo sì una Nazione provinciale, ma soprattutto di provincia. E' la solitudine che vi aiuta ad accorgersi della bruttezza del vivere. Suonare un disco come questo vuol dire dimenticarsi di tutto e lasciarsi avvolgere da puro immaginario. Qualcosa di distante, epico e magico. Migliore.
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