Seconda uscita discografica per questo quartetto veneziano che ondeggia amabilmente nella Summer Of Love degli ultimi Beatles (“Flowing Fun”) ma naviga sapientemente anche i crepuscoli musicali di gruppi come i Velvet Underground (“Northside Highway”). Non ci sono orpelli, fronzoli: “Northside Highway” è un album che ti fa sentire a casa, che canticchi subito dopo il primo ascolto ed hai voglia di risentire quando il frastuono che ti circonda rischia di farti dimenticare che è ancora possibile tendere l’orecchio alle melodie che spesso vengono annerite dai suoni cattivi. Uno dei migliori pregi di questo disco è proprio la grazia compositiva: hai la sensazione che la sequenza di nuclei narrativi e musicali sviluppati dal gruppo si muovano secondo un’idea circolare, elemento che dà all’album una decisiva compattezza nel suono ma anche un forte senso di dinamicità (“I love her when she smiles”). Non ci sono forzature di alcun tipo e spicca un uso preponderante delle chitarre che si muovono senza esitazione nei territori del pop di buona fattura: quello che predilige la semplicità, che ha padronanza degli strumenti utilizzati, che onora la classe vocale e ha voglia di arrivare a un uditorio composito percorrendo le strade principali (“Your house was bright on Sunday”). “Northside Highway” non è un disco nato per ammiccare ad intellettualoidi in cerca di supereroi del post-rock, né ad adolescenti attenti molto più che alla musica alle pose plastiche dei gruppetti da nuovo millennio; ma può paradossalmente essere apprezzato da entrambe le categorie di ascoltatori citati. Non ci sono spasmi, tortuosità musicali, ma una straordinaria armonia in cui il respiro si fa lento, gli strumenti non si inseguono a fatica e le note scorrono veloci. Le nostalgie non sono disseminate in codici indecifrabili, gli Zabrisky rigettano gli artifici e utilizzano come unico espediente musicale la freschezza del suono, che come motivo comune attraversa l’intero album. Gli otto brani originali si coniugano felicemente con le pregevoli riletture di “Emma’s House” dei Field Mice e un’inaspettata “A Robert’s Song” di Robert Vogel e fanno di questo lavoro un piacevole viaggio in quel pop britannico asciutto, caleidoscopico e meravigliosamente orecchiabile.
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