Daniele Sepe l’antagonista, l’idolo dei centri sociali, quello che lavorare stanca, che i Weather Report so mej’e Pelè. E allora cosa c’entrano il medioevo, i santi e le madonne celebrati in “Kronomakia”? In apparenza poco o nulla, nella sostanza servono ad aprire la scorciatoia per una rilettura della cosiddetta “musica colta”. Galeotto fu l’incontro con l’Ensemble Micrologus, da tempo impegnato nella rilettura della cultura dei primi secoli dello scorso millennio: loro ci hanno messo la strumentazione dell’epoca, i saltarelli, le suites della Galizia e i canti sacri; Sepe e la sua Rote Jazz Fraktion il jazz, qualche spezia recuperata tra i banconi di un suq, un pizzico di reggae e una sana complicità. Una commistione che, quando c’è, funziona bene e non snatura i ruoli né da una parte né dall’altra, tanto che la combinazione tra la compostezza della musica antica e la filosofia del “zompa chi può” sembra essere uscita in modo piuttosto naturale. Cantato in latino nella sua quasi totale interezza (ma per Daniele Sepe non è una novità assoluta), “Kronomakia” non è un disco solenne e nemmeno bigotto, nonostante i legami con la sacralità siano piuttosto evidenti: ne è la prova il testo (opera dei cosiddetti “clerici vagantes” del XIII secolo), che oggi definiremmo antimperialista, di “Vite perdite cb 124”, ma è l’unica concessione all’interno di un lavoro sin troppo ammanicato con la liturgia della chiesa cattolica, se si escludono anche le cover (peraltro riuscitissime) di “Stayin’ alive” e “Norvegian wood”. E, in effetti, per essere un disco di Daniele Sepe, mancano le voci del movimento e l’ironia, elementi che ne hanno caratterizzato il percorso artistico e di vita e che il musicista napoletano avrà tutto il tempo di recuperare più in là. Sarà che in certi momenti dell’esistenza diventa necessario confrontarsi anche su piani diversi dalla militanza politica, sacro compreso.
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