“Era che così / tra la pioggia e Nick Cave / mi veniva d’invitarvi / ad un banchetto di vino e carne / di violenza e silenzi”
Banchetto breve e ricco quello di Ettore Giuradei. Poco più di mezzora, ma nulla che manchi o che sia fuori posto: un lavoro vario e compatto, eterogeneo e coeso. Dopo un primo disco più che buono ma a tratti monocorde, Giuradei trova la giusta esposizione per le proprie istantanee. Le parole giocano istintive tra amori osservati dall’obliquo dell’ironia, metafore fiabesco-ecologiste e sortite criptiche. Sono però le musiche a segnare il salto di qualità. Lasciate da parte le chitarre elettriche che caratterizzavano l’esordio, ci si trova di fronte ad una chiara scelta acustica. E non si tratta di un banale ripiegamento sul classico schema cantautorale, ma di un rilancio non da poco. Ancor più che nella prova precedente, le musiche non si limitano ad essere un rassegnato accompagnamento, ma dialogano con la voce e la incanalano lungo deviazioni all’apparenza schizoidi o fortuite. All’apparenza, perché in realtà tutto è controllato e guidato dal pianoforte di Marco Giuradei, autore di ottimi arrangiamenti che permettono al disco di passare con naturalezza invidiabile dal surreale afoso di “Culo sulla lavatrice” alle parole pesanti di “Pasolini”. O di svariare come nulla fosse fra la sospensione cazzona di “Stupito” e la fisicità passionale della “Zingara”. I riferimenti ci sono e non vengono nascosti: Capossela e Conte, con il secondo in netto avanzamento. La forza di questa mezzora, però, sta nella capacità dei due Giuradei di amalgamarli in un immaginario personale che si delinea sempre più. Un percorso simile a quello di Stefano Vergani, ma con la forza di una prospettiva teatrale che fornisce un puntello d’ulteriore originalità. Ancora cantautorato? Sì, ancora cantautorato. Ma un cantautorato che sbraca, piange, sanguina, emoziona.
“E torniamo a vestirci da diavoli / Sotto natale / Ci sarà tempo per purificare”.
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