Dischi per l’estate parte 2: andate a ballare in Puglia anche voi quest’anno? Dai che magari vi cade in testa una gru, vi trasformate in Jimi Hendrix e viaggiate nel tempo fino al ’68 delle ormai lontane rivoluzioni (…) giovanili!
Parlare male di Caparezza è ormai fuori luogo. Rappare delle cose di cui rappa lui è giusto. Pesante, ma giusto. Punto. Che poi in gioventù sia stato un prodotto inimmaginabilmente trash, non mi interessa più. E c’ho pure un paio di amici che non lo perdonano ancora e non lo perdonerebbero mai, nemmeno se facesse un altro disco bello come quello che ha fatto. E nemmeno io glielo perdono, ché non bisogna essere dei geni per capire che a fare cagate si emette una puzza pazzesca, e che la giovinezza non è una giustificazione all’odore. Ma il fatto è che, ora, questo cd è bello, utile, e parecchio avanti. Si, avanti. Che bisogna ascoltarlo più volte per capirlo tutto. Che i testi sono particolarissimi, e mai banali (affermazione importante e circense, ma, ora, giusta). Che le metriche (la metrica) fanno di Caparezza il rapper più riconoscibile d’Italia. Canta così, il suo flow è questo, ed è un flow con cui Michele fa quello che vuole davvero. Ed è un piacere, anche se la voce ha un tono metallico standard e i coglioni strizzati, perché Capa la musica te la pimpa a dovere e te la fa entrare in testa, con la presa di un cantastorie di Nottingham e l’innocenza di un quindicenne di trent’anni, caustico, ulcerato, terrone e troppo consapevole in un paese allo sbando e senza memoria. È solo per questo che la butta sul ridere, altrimenti vince l’ulcera, e non ti ascolta nessuno se fai un discorso serio. Ed è per questo che il suo stile non ha nulla a che vedere con gli stili codificati. È un casino vero, un caos di dimensioni notevoli, come la musica, che passa dal metal, al pop, al rock, alla pizzica, all’elettronica, alle marcette, alla presa per il culo, passando per i Ministri, il tutto condito dal suo rap a.k.a. “Io non vengo dalla strada, sono troppo nerd!” (rap, non hip hop, claro?). I machismi sono banditi: “un vero uomo dovrebbe lavare i piatti” e l’omofobia è una malattia dell’uomo, non l’omosessualità, ché, checchenedicano i nazicattofrocirepressi, la natura non la pensa di certo così. Chiedete al bonobo, la scimmia evoluzione dell’uomo e pericolosa alternativa sociale in una società che non riconosce il fatto che “l’unico modo per vivere in pace è giocare, mangiare, ed accoppiarsi”.
Il mondo di Capa è pure il nostro, se non ve ne siete accorti, ed è un circo a cui si partecipa per forza, senza possibilità di tirarsene fuori. Da Ilaria raffreddata e condizionata da tutto, a Luigi Delle Bicocche, l’eroe del primo singolo: una canzone che è un western edilizio, epico e al tramonto; una non retorica piena di parole che fa venire la pelle d’oca, per la semplicità degli argomenti e la forza delle argomentazioni, tragiche e tristissime perché vere. Come “chi muore al lavoro…”. Porca puttana se siamo nella merda… E non è vero che “we don’t need another hero” come diceva Tina.
Tutto questo per dire che questo disco ha lo spessore (e la forma) di una Storia, e merita molto. Punto. Anzi no: “Human sucks!”.
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