Un debutto dalla densità magmatica questo dei Pane. Una fascinosa grevità poetica e melodica che già dal titolo del disco si fa largo nell'indistinto panorama delle produzioni indipendenti italiane a colpi di immaginifica solennità. Il quintetto capitolino, dietro la regia di Giancarlo Onorato, cesella sapientemente un bassorilievo musicale che utilizza filiformi partiture cameristico/progressive per incorniciare declamazioni cantautorali dotate di indiscutibile valore letterario. Un approccio quasi "verista" quello dei Pane che, in assoluta presa diretta, privano il lavoro di qualsiasi artifizio scenico per traghettare all'ascoltatore sensazioni intense, pathos e intimo lirismo.
"Tutta la dolcezza ai vermi" può vantare tutta la personalità di un concept-album in un vestito di spartana bellezza, tessuto con maestria da un manipolo di strumenti per nulla indiscreti (flauto, chitarra, pianoforte e batteria), eccellenti comprimari di Claudio Orlandi - protagonista vocale e autorale del progetto Pane - bravo sì a giocare di fino sul labile confine tra narrazione e canzone ma altrettanto ingenuo nel trasformare, a tratti, la sua poetica spiritualità interpretativa in ridondante teatralità (in alcuni frangenti talmente enfatizzata da inficiare persino la comprensione delle parole!).
Le cover di "Tu non dici mai niente" di Léo Ferré e "Vedrai vedrai" di Luigi Tenco sono forse (e paradossalmente) gli unici punti deboli di un lavoro che strada facendo ci regala vette accademiche di parole-in-musica, quali "Testamento", "Abu Graib" e "Distanza amorosa" di Antonio Porta, poeta precocemente scomparso nel 1989.
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