Ci sono dischi che posseggono il potere di conquistarti sin dal primo ascolto. Che poi è una prerogativa di chi si muove infarcendo le proprie canzoni di leggerezza, ironia, malinconia. E se a tutto questo aggiungiamo la capacità di mischiare l’alto con il basso, l’amore per il Brasile fino a un po’ di sano antagonismo senza passamontagna minacciosamente calato sul volto, beh, ecco “Il nome dei pomodori”. Chi si fida dei Marcosbanda combina un affare, perché il loro lavoro d’esordio rappresenta un piccolo compendio di come vorremmo vedere il piccolo e malato mondo che giace sotto i nostri ingrati piedi, un mondo dove si potrebbe cominciare a dare il nome ai pomodori, appunto, condannare senza se e senza ma la guerra (come ben spiegato in “Sarebbe ora”, canzone vincitrice del Premio Amnesty 2007), tornare a innamorarsi oppure passare il tempo a prendere per i fondelli il politico o il bidone (nel senso calcistico) di turno, oltre a riscoprire il valore dell’amicizia o di qualche favola, se possibile postmoderna. Tutto questo sarebbe davvero tanto bello e a forza di ascoltarla la Marcosbanda, quasi si comincia a credere che i sogni di ogni freaketon-pacifista possano realizzarsi sul serio: sarà per il loro atteggiamento scanzonato, per quel modo di frullare la canzone d’autore, la bossa nova e lo swing, per come riescono a fare tabula rasa di tanti anni di impegno sbandierato assieme a chili di noia e barba posticcia d’ordinanza usando una realtà leggera ma non per questo priva di energia e ideali. Si potrebbe obiettare che la vita è dominata da ben altri fantasmi – e chi può negarlo? – ma lasciarsi andare ogni tanto non costa nulla. Nel caso ci fossero dubbi, allora meglio farsi trasportare dalla cover de “La tartaruga” (già, Bruno Lauzi) oppure recarsi dall’ortolano di fiducia e convincerlo a chiamare il suo pomodoro più lucido ed esteticamente intrigante (?) “Peter Gabrieu”…
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