Quando mi chiedono di questo disco, agli amici rispondo glissando che non ho mai avuto praticità con i vinili. Forse perché da piccolo distruggevo le cassettine, e il giradischi era solo un feticcio intoccabile e proibito che scrutavo dalla teca trasparente. Nonostante la persistenza di un certo timore reverenziale, ho imparato ad azionare il vecchio Thorens di casa per accorgermi che le decantate differenze tra pasta vinilica e compact-disc proprio panzane non sono. Del resto ascoltare i quattro lati di “Idolum” sul consueto dischetto di plastica da dodici centimetri sarebbe stata un’esperienza sicuramente diversa: meno penetrante, meno coinvolgente, meno fisica.
Anzitutto perché non avrei in mano un involucro tipo cartone della pizza che cela una scatola (simile più a una confezione deluxe di cioccolatini) da cui emerge con sorpresa il poster di Malleus disegnato per “Idolum”. Ecco quando le descrizioni visive del contenente sono quantomeno necessarie o dovute, specie poi se riescono a rappresentare così bene il contenuto. Se “Snailking” raffigurava un’animalesca spirale contorta su sé stessa, e poi il disco era un’orgia di sintetizzatori strafatti e visionari, a “Idolum” basta un colore: Nero. Pece, fumo, notte, seppia. Fate voi. E’ nero cioè scuro profondo ossessivo. Rappresenta il nuovo percorso degli Ufomammut e il distinguo più radicale con i precedenti lavori. Non che fossero meno scuri, profondi, ossessivi. Erano descritti (meglio) da altri elementi: commistioni psichedeliche e scontri/incontri di suggestioni tra i suoni fumosi dei primi esperimenti post-Black Sabbath (Sleep o Melvins) e tensioni di ben altra estrazione (Neurosis piuttosto che Mogwai). “Idolum” non rinnova le strutture ma ne ridefinisce i contorni, adeguandoli a nuove esigenze sonore. Mai come adesso l’habitat vinilico restituisce frequenze cavernose e abissali, dispensando fuzz e valvole in saturazione tra cui risulta davvero arduo districarsi. Dipingono un muro poligonale dalla densità magnifica, subdola, agghiacciante, proibita. Il mito ancestrale del conflitto tra elementi lascia la matita di Malleus e si immerge in “Ammonia”, brano magico e conturbante sorretto dai riverberi vocali di Rose Kemp. Scende negli inferi della decompressione pachidermica e chitarrosa di “Void”, poi è un lago di lava fusa con synth minimali e malvagi che (re)interpretano le divagazioni free-form dei primi due album.
Con tutti i pregi e i difetti del caso, dopo tale percorso non si può che considerare la band come creatrice di un suono distinguibile e ormai svincolato da suggestioni extra-europee. Sempre in cerca del connubio totalitario e perfetto tra Suono e Immagine, Ufomammut e il suo laboratorio grafico realizzano in definitiva il disco da osservare e l’artwork da ascoltare. Dovremmo tenerceli stretti.
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