Tutto sta nei primi due pezzi. “L’evo dopo il medio” è un brano ossessivo, che ruota su se stesso e sull’ascoltatore, stordendolo e assestandogli colpi da ogni lato, grazie anche a un testo che vive di continui calembour, giocati su vocaboli che giudicheresti astrusi anche in un’edizione della Treccani degli anni trenta. Un equilibrio potente e rischiosissimo, che pare sempre sul punto di cedere eppure resiste e colpisce nel segno. Il secondo pezzo è “Il solito sesso”, brano dal grande successo post-sanremese, che esalta il talento di Gazzè nel plasmare piccoli capolavori pop: di nuovo il testo è limato al dettaglio, appoggiato questa volta su una musica trattenuta e mai eccedente.
È su questo dualismo che vive l’intero disco: da una parte pezzi che usano come arma principale parole levigate ma pesanti come macigni (“Crisalide”, “Elogio alla sublime convivenza”), dall’altra la tensione al pop perfetto (“Tornerai qui”, “Vuoti a rendere”). Purtroppo i restanti nove pezzi non sono tutti all’altezza dei primi due. Compiendo un passo indietro rispetto al precedente “Un giorno” (2004), uno dei migliori dischi italiani degli ultimi anni, Gazzè torna a mostrare uno dei suoi limiti storici, ovvero la difficoltà nel reggere sulla lunga distanza (problema messo in luce in particolare nel dispersivo “Ognuno fa quello che gli pare?”, 2001). Gazzè conferma ancora una volta la sua capacità di volare sopra la media per intelligenza e obliquità di sguardo, ma stavolta qualcosa pare non tornare.
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