Uno strappo in mezzo a un telo dalle mille pieghe, e ti infili dentro ad uno spazio ovattato, in cui le batterie cupe ti fanno rimbalzare da una parete all'altra, come un gong incessante che non ha nessuna pietà. Non ti fai male, anzi. Rimani lì a galleggiare mentre i tentacoli di cembali e trilli che arrivano da tutti i lati cercano di circondarti, a scioglierti su tastiere sibilline e dietro ad intrecci di voci che salgono scendono si muovono nel tuo spazio ma che non riesci mai ad afferrare.
I Blake/e/e/e hanno raccolto le ceneri dei Franklin Delano. Sono rinati da quelle stesse ceneri, purificandosene senza buttare via l'ottimo lavoro svolto. E hanno fatto un disco che è come tavolozza piena di colori, su cui tutto è in divenire e l'acqua ha il potere supremo di diluire o condensare, di decidere sulla vita di ogni singolo suono che attraversa un'aria rarefatta ma estremamente piacevole. Ora, riconoscere primari e complementari, i freddi o i caldi, non è semplice e forse non è neanche troppo importante. Poniamo come base un impianto dub, estremamente liquefatto e concentrato sulla ripetizione che, alla lunga, comincia a deformare gli oggetti intorno: il tempo scorre (sembra un'eternità), l'orologio di Dalì si è praticamente sciolto e da dietro parte una stilettata di batteria che ti fa sobbalzare. Riprendi conoscenza, possesso dello spazio sonoro e ti rendi conto che qualche chitarra ce l'hanno sapientemente infilata, a dare un qualche indizio per ricostruire un percorso. Poi arriva un organo che fa evaporare tutto in aria e si fa via via più coprente. E' un po' quello che succede nell'attimo in cui si arriva ad un pezzo come "New Millenium's lack of self explanation", dopo di che si fanno strada le praterie americane, insieme ai banjo e a canti di sottofondo rubati forse ad una tribù che celebra qualcosa di assolutamente sacro. I colori tornano a mischiarsi, torna l'acqua, salvifica e purificatrice, riacquisti sicurezza riconoscendo un'atmosfera che sembra quasi da P. J. Harvey, o un appiglio più folk a cui ti aggrappi mentre la centrifuga, lenta e martellante, continua.
Dentro ci sono un sacco di cose, insomma, che ritornano come in una tavola periodica: è il bordo su cui cammini da più di quaranta minuti e da cui sai che prima o poi cadrai. E invece il cerchio continua a girare, l'acqua a scorrere, i colori a mischiarsi e a cambiare forma e densità, ma tu hai la sensazione di star fermo. Un'immobilità ciclica, un pendolo davanti agli occhi che non riesci a smettere di fissare. Ti risvegli ogni tanto grazie a qualche grido più aggressivo, a qualche strappo. Ma anche quando finisce tutto, continui a galleggiare, e ne vuoi ancora. Ancora. Ancora.
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La recensione Border Radio di Scritto da Giulio Pons è apparsa su Rockit.it il 2008-07-24 00:00:00
COMMENTI (7)
onestamente li metto un attimo in bilico fra la onesta genialata ed il farmelo a fette
devo riascoltare
gran bel disco, il disco italiano non italiano dell'anno per me.
Molto bravi...time machine è molto in stile Joy Division...cmq ha ragione giuly79.. quando a torino????
bravi!!!
suoni solidi, buoni arrangiamenti, atmosfere visionarie e a tratti psichedeliche. Molto interessanti, spero di vederli dal vivo, a quando una data a Torino?
:)
interessanti, molto belli gli arrangiamenti e le atmosfere. molto americani!
e in effetti la traccia 6 mi ricorda molto venus in furs dei velvet underground!:]
comunque fighi
a tal deg me!!! :[