La storia potrebbe essere quella antichissima dell'appuntamento a Samarra, cantata quarant'anni fa da Vecchioni e riproposta in queste settimane da “Sherlock”: il mercante persiano che si accorge che la morte l'ha adocchiato al mercato di Baghdad e per questo cavalca giorno e notte fino ad arrivare a Samarra, solo per scoprire che la morte è lì ad aspettarlo, preoccupata del fatto che non arrivasse in tempo. L'esperienza Brunori SAS iniziava allo stesso modo, come il tentativo di fuggire da qualcosa di troppo doloroso da sopportare:“Di fronte al dolore la mia prima reazione è sempre la fuga e quando ne parlo, come ne “La verità” - racconta Brunori - parlo a me, ma con la consapevolezza che si tratta di un tema condiviso: la rimozione del dolore, il fatto che non si parli di nulla legato alla morte e che quando lo si faccia si spettacolarizzi tutto è la dimostrazione che si tende a fuggire dal dolore vero, quello che non ha mediazioni”. La scelta di affrontare di petto questo tema ha portato ovviamente a delle conseguenze: la più simbolica ed evidente è stata la decisione di omettere la dicitura “Vol. 4” dal titolo dell'album. “Abbiamo interrotto la pubblicazione in volumi - continua - Era una cosa iniziata per gioco, non c'era l'idea di fare un piano programmato di dischi. Questa volta mi sembrava che non ci fosse più quel discorso ironico presente negli altri album e questo era un modo per indicare che il disco non rientra in quel filone”.
È vero, ci sono pochi “nanana”, ho cercato di inserirli perché ne sentivo la mancanza e qualcuno sono riuscito a metterlo. È un disco nato proprio con un approccio diverso dal punto di vista musicale.
I primi lavori sono nati senza un’idea di disco, semplicemente raccoglievo le canzoni che stavano meglio insieme. Stavolta avevo intenzione di scrivere un disco che avesse una coerenza. Non ho deciso cosa volevo scrivere, ma cosa non volevo scrivere; ho cercato di scremare e non ripetere episodi che in passato mi avevano caratterizzato. Niente ironia e quindi niente pezzi come “Mambo reazionario”, ma nemmeno pezzi come “Lei, lui, Firenze”, perché in questo momento non li sento nelle mie corde. Non volevo rinnegare il passato, ma non me la sentivo di scrivere ballate sentimentali, sulle relazioni.
Ho immaginato molti brani come un dialogo continuo tra due voci. Una che ha più a che fare con il Dario degli ultimi anni, che continua comunque a essere dentro di me. E poi un'altra che più che una critica è uno sprone, perché in attrito rispetto a una visione che si è tradotta negli anni in un certo tipo di canzoni e spettacoli. Poi ci sono brani come “Canzone contro la paura” che è una meta-canzone che prende come riferimento proprio quel modo di scrivere. Non solo, va in contrasto anche rispetto al Dario che vuole stare tranquillo a casa sua, perché si sta al calduccio.
Probabilmente no e infatti nel disco racconto questa divisione tra restare a casa e andare in giro, che non è una divisione che vivo con amarezza. Stare a casa mi dà tranquillità e l'ispirazione oppure mi dà il tempo per far decantare l'ispirazione raccolta in giro. Se non facessi questo mestiere avrei senz'altro bisogno di uscire. Nel desiderio di tornare a casa c'è anche il fatto di essere uscito.
Sono molto casalingo e abitudinario, passo molto tempo a casa perché mi piace documentarmi e informarmi. Negli ultimi anni sono stato spessissimo al computer e nel disco credo si capisca che molte storie raccontate non sono solo di vita vissuta, ma anche mediata attraverso “la vita cellulare”, come la definisco in “Lamezia - Milano”. Passo molto tempo a guardare il mondo, ma in modo mediato. E poi faccio una vita normalissima, da famiglia. Ho scritto il primo disco a 30 anni e il fatto che abbia iniziato a fare questo mestiere in età adulta mi permette di non essere del tutto assorbito, perché nel paese trovo cose che mi permettono di vivere in modo normale, come facevo prima di Brunori SAS. Magari se stessi a Milano sarei più a contatto con addetti ai lavori, altri artisti e la mia vita sarebbe più orientata in quella direzione. La dimensione di San Fili mi permette di continuare ad avere un occhio, uno sguardo e un'esperienza di vita più legate al mondo che mi interessa e con questo disco penso di parlare di cose che hanno a che fare con gli esseri umani e non con una loro particolare selezione o un certo mondo. “A casa tutto bene”, ma va data un'occhiata anche a quello che c'è fuori per valutarlo.
Da questo punto di vista è un disco di coscienza, ma in cui non ci sono risposte. Se teniamo valido questo discorso delle due voci che dialogano tra loro, non so a quale dare più peso. Se è vero che negli ultimi anni sono stato seduto al tavolino con l'amaro, oggi entra in gioco questa cosa che dici tu, ma non so bene come prendere posizione. Però sia i social che gli incontri mi danno comunque la possibilità di capire che oltre alla mia isola felice e alle persone belle che conosco e incontro grazie al mestiere che faccio, c'è un'altra umanità che faccio fatica a conoscere.
Il senso di colpa è il motore di tutto quello che faccio: questo disco avrei potuto intitolarlo “Mea Culpa”, anche nello spettacolo precedente mi prendevo tutte le colpe del mondo per liberare gli altri. Su Wikipedia a un certo punto hanno proprio scritto “nel 2015 si assume tutte le colpe del mondo”, una cosa del genere. Colpevole di tutto, il senso di colpa è universale.
E meno male, perché il fuoco di quei pezzi è proprio la mia condizione rispetto a quella cosa. Fino a quando non mi metto in mezzo potrebbe essere il pezzo politico classico alla vecchia maniera, invece quello che mi interessava era inserirmi in quel contesto, non mettermi a giudicare con il ditino alzato, altrimenti sarebbe stata una cosa scontata. È quello che faccio anche in “Don Abbondio”, quando dico che “Don Abbondio sono io”. Poi magari qualcuno mi dirà lo stesso che gli ho fatto il pippone, ma è un rischio che dovevo correre per fare un disco di questo tipo. Se si ha sempre paura di esprimersi, finisce che poi non si esprime più nessuno e questo secondo me è altrettanto tragico quanto il moralismo. Mi è dispiaciuto perdere l'ironia in questo disco, perché è una caratteristica che mi ha sempre contraddistinto, però mi ero reso conto che stava diventando uno schema, che stava diventando meccanico ed era anche questo uno strumento per evadere, per prendere un argomento e renderlo meno doloroso. Era troppo consolatorio e avevo bisogno che a questo giro ci fosse un po' di disillusione, di cose dette dritte in faccia. Anche se poi non riesco a essere cinico.
Due reazioni differenti nella forma, ma uguali nella sostanza.
Eh beh, penso proprio di sì, anche se non l'abbiamo mai dichiarato e non si deve sapere perché dobbiamo rimanere giovani per il pubblico, soprattutto di Rockit. Sì, pesa, però come dico ne “Il costume da Torero” la mia età non è questa, è almeno la metà, perché questa è l'unica cosa che ancora non voglio accettare.
No, strano non direi. Un certo tipo di umanità e mondo è sempre stato raccontato da soggetti che non ne facevano parte. Prendi “Amore tossico”: Claudio Caligari era assolutamente fuori dal mondo narrato. Questo tipo di distacco ti dà la possibilità di narrare in modo diverso, scevro della parte emotiva che deriva dall'appartenenza. Penso che alla fine il problema sia che determinate proposte non vengono veicolate al pubblico da chi si pone in mezzo tra te e quel pubblico, ovvero i media. Forse anche questo rientra nella differenza tra la narrazione “milanese” dei media e un'Italia che è fatta soprattutto di provincia. Probabilmente adesso quel tipo di narrazione mediatica non prevede che ci possa essere spazio per un pezzo come “Il Giovane Mario”, su un povero cristo pieno di debiti, perché lo vede come una cosa vecchia. Quella cosa in realtà esiste ed è anche preponderante in gran parte dell'Italia, però come fai a raccontarla? O la medi attraverso un racconto tipo “La vita in diretta” oppure non c'è un modo per narrarla che si inserisca nel linguaggio televisivo o radiofonico attuale. Così capita che quando vado a suonare nelle piazze è proprio il muratore, che poi è solo un'estremizzazione della gggente con tre g, a venire a chiedere: “Ma tu da dove spunti? Perché queste cose non si sentono?”. Questo tipo di riscontri mi fa capire che lo spazio ci potrebbe essere, ma viene chiuso.
Bella domanda, ci stiamo pensando proprio in questi giorni. Sicuramente sarà uno spettacolo che nella prima parte avrà molto del disco nuovo, ma sto cercando di capire come equilibrare con i pezzi vecchi, perché se non faccio i classiconi mi linciano e poi pure io sono uno spettatore che ai concerti vuole anche le canzoni vecchie. Sto studiando la scaletta per fare in modo che le canzoni del passato che non c'entrano nulla con quelle nuove non interrompano un determinato discorso. Quindi ci sarà un mattonazzo all'inizio, ma se si resiste poi è tutta festa.
Sbracare mi sembra il termine giusto, è una cosa che fa parte di me e che non rinnego, però mi sembrava giusto che non ci fosse per rendere più netto questo disco. La vita è fatta di momenti seri e momenti sbracati, ma raccontare questa doppia anima in un'opera può farle perdere forza. I dischi che mi piacciono sono dischi netti, quindi ho rinunciato a rappresentare la mia parte frivola per concentrarmi a fare un disco come quelli che ammiro. Volevo che fosse anche un disco apprezzato da chi fa musica e per questo a livello di produzione Taketo Gohara ha faticato di più, ma ha fatto un lavoro incredibile: è stato veramente giapponese nell'accettare la mia invadenza, ma era necessario più impegno perché volevo fosse un disco a fecondità ripetuta. Cioè volevo che ogni volta potesse lasciare qualcosa di nuovo all'ascoltatore e i primi feedback che ho ricevuto vanno in questa direzione. È bello che non sia tutto e subito.
In questo senso sì, è anacronistico. Così come è anacronistica l'idea dell'album, di una scaletta ragionata. Però l'idea di pensare a un disco mi piaceva e piaceva anche al gruppo di lavoro. Forse stiamo tornando a questo tipo di approccio, in questi anni già qualcuno l'ha fatto: basta pensare a un disco come “Die” di Iosonouncane, che non è solo un bellissimo lavoro, ma qualcosa di più ed è uno di quegli album che mi ha indicato la strada da seguire. Fare un disco che quando lo senti ti fa dire che è un'opera d'arte e non una raccolta di canzoni.
L'ho inserita per fare una sorta di fine primo tempo/inizio secondo tempo, per creare uno spartiacque. “Diego e io” è una canzone che ho immaginato con un approccio musicale diverso, a sé. È l'unico pezzo con il pianoforte e gli archi e Dimartino l'ho coinvolto perché mi serviva una consulenza sul Messico da uno che c'è stato e l'ha studiato, visto che tra poco uscirà il suo disco con Fabrizio Cammarata dedicato alle canzoni di Chavela Vargas. Volevo evitare di fare una canzone su Frida Kahlo solo dal punto di vista di uno che ha visto il documentario e ha letto informazioni su internet, volevo ci fossero degli elementi di vissuto e Antonio poteva darmeli. La risposta vera al motivo per cui è nel disco, però, è che per me era troppo bella per poterla lasciare fuori, ma abbiamo cercato di far si che non interrompesse il discorso.
Sono orgoglioso del fatto che, pur trattando di tematiche che non mi riguardano direttamente, è un disco che mi muove tanto al sentimento. Rispetto al passato sembrerebbe meno sentimentale e poetico, ma in alcuni pezzi mi viene sempre il brividino.
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