È salito su un Freccia Bianca e come Luciano Bianciardi ha lasciato la sua Maremma per la grande Milano. Ora, davanti a un piatto di orecchiette ci svela cosa farà da grande
“Lui qui lo conoscono tutti”. Incontriamo Lucio Corsi all’ora di pranzo, il cielo di Milano non ci regala alcun sole per oggi. Siamo a Niguarda, quartiere parecchio popolare alla periferia Nord della città, e per prima cosa Lucio ha voluto tributare il suo omaggio a Rocco, un personaggio che qui è storia e presente di chiunque viva un po’ per strada. Freak il giusto, molto simpatico. Rocco e Lucio si scattano una foto assieme, la trovate qua sotto.
Rocco non è la sola popstar di Niguarda: anche Lucio Corsi è conosciuto da tutti. Perché fa il musicista, e ha quel suo look inconfondibile. Ma anche e soprattutto perché Lucio qui si è trasferito dalla sua Maremma e da quel momento vive il quartiere come uno che qua ci è nato e non se ne andrebbe per nessun motivo. E poi sa farsi volere bene, sempre.
È sceso pochi minuti fa da casa, anche se dal look non si direbbe. O forse si veste così anche per stare sul divano, conoscendolo non ci stupiremmo. In pochi tiri la sigaretta è sparita. Ci incamminano verso l’Antica Trattoria Ambrosiana. “È un posto in cui vengo sempre”, dice. Dentro pare una grande casa accogliente, ci sembra di essere al pranzo della domenica con i parenti. Saluti a gran voce, pacche sulle spalle. “Ma lo sapete, sì, chi state per intervistare?! Questo ragazzo avrà un grande successo, è il migliore”, dicono.
C’è questa idea di famiglia che si ripete nei racconti, nelle parole e nei movimenti di Lucio mentre parliamo. “Mi chiamo così perché ho preso il nome di mio nonno Luciano, solo che tutti lo chiamavano Lucio”, è tra le prime cose che ci dice. “Vengo da una famiglia di sole donne praticamente, mia nonna aveva 9 sorelle: mia madre e le mie zie hanno sempre lavorato al ristorante, sono sempre stato circondato”. Sarà per questo che tutto sa di casa in lui, e che il ristorante della nonna a Macchiascandona, nella campagna maremmana, rientri all’inizio quasi di ogni sua conversazione. Anche nel microcosmo milanese che si è costruito, trasferitosi qua per fare il mestiere che sogna da sempre, la dimensione domestica appare subito evidente.
I capelli sono sempre più lunghi, sulla maglietta la stampa di Ezechiele il Lupo. Mentre scambia due chiacchiere con i proprietari del locale ordina un piatto di orecchiette fresche. Tutto d’un tratto non siamo più nella capitale lombarda, ma nella trattoria di un piccolo paese di provincia, dove si conoscono tutti quanti e ci siede un po’ al tavolo che capita. Alcuni anziani seduti accanto a noi lo intercettano immediatamente. “Mi raccomando Lucio quando suoni qui a Milano, noi veniamo anche nel backstage”.
Il suo secondo disco Cosa faremo da grandi? è uscito da pochi giorni per Picicca Records, a tre anni dopo quel piccolo gioiello che fu il Bestiario musicale. Da qui, dal disco, partiamo per le nostre chiacchiere, mentre finiamo di mangiare.
Com’è stato lavorare con Francesco Bianconi (leader dei Baustelle e produttore del disco, ndr)?
È stato bello: abbiamo tanti gusti in comune sulle cose in generale, siamo sulla stessa lunghezza d’onda. È nato tutto nel 2017, quando aprivo i concerti dei Baustelle. Ed è sempre da quell’incontro che è nata anche la collaborazione con Gucci, per cui ho sfilato.
La produzione del disco è lontanissima da quello che era stato il Bestiario musicale.
Non mi piace mai ripetermi nelle cose. Arrivavo dal Bestiario musicale e l’ultima cosa che volevo fare era ripetere un concept album: quel disco era stato arrangiato e aveva quel tipo di sound perché era giusto per quel tipo di argomento. Ma è stato un capitolo a sé.
Cerchi sempre qualcosa di nuovo nella tua musica?
Volevo che la formula cambiasse, volevo un disco classico, dove ogni canzone avesse la sua storia, il suo mondo. Questo è un disco molto vario, che va dalle chitarre elettriche a canzoni acustiche, fino alla marimba. Questa cosa mi rende molto felice, mi piacciono i dischi dove c’è varietà. Penso ad esempio a Sail Away di Randy Newman, dove ci sono canzoni rock n’ roll che si susseguono a canzoni orchestrali: è una cosa unica da trovare.
E una bella fetta di glam rock…
Certo, il pieno glam rock degli anni ’70, tipo le ballate, il Velvet Goldmine, quel tipo di sound lì, elettrico, distorto. Forte però è stata anche l’ispirazione dei cantautori italiani come Ivan Graziani, Paolo Conte, Pierangelo Bertoli.
Ti sarai stancato di essere definito bowiano…
È una cosa che mi dicono in tanti, è vero: tante derivazioni estetiche e musicali sicuramente le devo anche lui. Ma c’è anche tanto altro glam rock da ricordare, come i T Rex o i Roxy Music: è un genere che amo, e se viene fuori in questo disco ne sono più che felice.
Ti tieni libero musicalmente per il futuro?
Cambiare è la cosa più difficile, ma anche la cosa più bella che ti puoi augurare per il futuro. Trovare un metodo preciso di scrittura e arrangiamento lo si può fare per un disco, da lì poi è giusto cercare qualcosa di nuovo: è una soddisfazione quando ci riesci. Nella musica ci deve essere totale libertà, come nella pittura e nella scrittura.
La copertina di Cosa faremo da grandi? è un dipinto di sua madre, come per il precedente disco. Il significato della canzone proviene da un modus vivendi che gli ha trasmesso suo padre, quasi fosse un’arte, quella di non vivere mai con troppe aspettative o affanni, come la vera vita di campagna insegna, rispettando la ciclicità del sole. Lucio è onirico, ma i riferimenti alle sue origini sono sempre presenti nella sua dialettica: nelle sue storie che raccontano di spiriti pellerossa, montagne e onde del mare che ti portano conchiglie. La natura che lo circonda, di cui lui stesso si nutre, prende magicamente vita: anche lei ha qualcosa da raccontare, e Lucio ne è il portavoce.
Cosa pensano i tuoi genitori di quello che fai?
Vedono il mio mestiere in maniera molto distaccata, in realtà. Sono molto felice di questo rapporto, mi hanno sempre appoggiato nel mio percorso però non ci hanno mai messo naso. Gli faccio sentire le canzoni solo quando escono e se passo vicino casa vengono a qualche concerto.
Quindi cosa farai da grande?
In quella canzone parlo di un modo di vivere, un approccio alla vita, dove si festeggiano più le linee di partenza che i traguardi: rispecchia quello che mi hanno insegnato. Non ha senso avere la smania costante di arrivare a un certo livello o essere per forza ricordati per qualcosa, è una cazzata. Io da grande non lo so che farò, ora faccio questo mestiere perché mi rende felice, mi gratifica e mi diverte. Poi se un giorno non dovesse essere più così, smetterò. Serenamente.
Mamma continua a dipingere, quindi.
Sì, è il suo hobby, dipinge da quando è giovane: è un ex studentessa del liceo artistico. Tutte le copertine dei miei EP e dischi sono dipinti di mia mamma. E questa cosa continuerà, credo.
“Mettiti questi occhiali alla Elton John, ti stanno bene”, dice Lucio a un altro amico che passa di lì. In quel momento sembriamo tutti insieme i personaggi di una commedia corale. “Sei un po’ il nostro Rocketman”, gli dico. Ribatte: “Eh, anche Elton è un altro che ho sempre ascoltato tantissimo”.
La Maremma è un posto che non si fa comprendere da tutti, ci sono grandi distese di terra che si spezzano tra una collina e l’altra, animali che sembrano fantastici abitano i giardini di tutte quelle case bianche che si perdono dietro qualche viale di cipressi. Se ti giri verso Ovest vedi il mare e se guardi verso Est scorgi le punte delle montagne; nei giorni in cui il cielo è più chiaro del solito puoi contare l’altitudine delle isole dell’arcipelago toscano. Per chi ha un briciolo in più di fantasia, ti sembra di toccare anche la Corsica. Lucio la sua Maremma la racconta da sempre. E ci torna ogni volta che può: la città non è il suo habitat naturale. “Sentirsi soli in una grande città è più dura che nella mia terra, ci sono troppe pareti, troppi muri dove sbattere la testa”, canta in Freccia Bianca.
Com’è stato per te lasciare la Maremma per venire a Milano?
I primi anni era più difficile di adesso, la città in generale non mi piace. Sono nato e cresciuto in una casa di campagna senza nessuno nei paraggi, con spazi immensi intorno a me, ho bisogno di quello, mi manca spesso. La città vive troppo nel suo caos quotidiano.
Per quello fai sempre avanti indietro?
Sì esatto, ultimamente cerco di stare qua il più possibile, ma poi a un certo punto devo tornare a casa.
Milano è la prima città in cui Lucio si trasferisce dopo la fine del liceo a Grosseto, prima vive sul Naviglio Pavese, poi si trasferisce in via Ripamonti e ora a Niguarda. Gli chiedo se c’è stato qualche viaggio fatto che lo ha particolarmente segnato. “Non ho viaggiato molto in vita mia, però una volta ho visto il deserto: è stato bellissimo, era un posto senza confini”.
Perché hai scelto Niguarda?
Ho sempre abitato con gli stessi amici maremmani, abbiamo girato varie case e siamo qua da 5 anni ormai. Siamo quasi gli stessi del nucleo originario appena ci trasferimmo qua. Questo quartiere, però, ha una bellissima storia: è stato un centro resistenziale piuttosto importante, all’entrata c’è un murales grandissimo “Niguarda antifascista”.
Qua è casa?
Io sto molto a casa mia, c’è un bel parco qui dietro. Che è bello proprio perché lasciato selvaggio, non è curato. Sembrano dei grandi campi incorniciati da palazzi altissimi. Due bar, le onoranze funebri, un panificio e un supermercato. E poi la trattoria, è qui il fulcro.
Altri amici sono arrivati nella sua vita in corsa, come Tommaso Ottomano, che non solo è il suo regista e fotografo da sempre, ma anche un fratello acquisito. “Ci siamo fatti fare lo stesso paio di scarpe con il nostro nome inciso sotto, una volta gliele ho rubate perché le mie erano sporche e lui se n’è accorto dopo mesi”, ride Lucio.
Quanto è stata importante per te il gruppo?
Alcuni amici dalla Maremma sono gli stessi che vivono qua con me a Milano, e saranno anche con me in tour. Sono stati e sono tutt’ora fondamentali, mi hanno anche indirizzato nei miei ascolti musicali.
Come vi siete conosciuti con Tommaso?
Tommaso Ottomano lo conoscevo già da prima: lui è di Porto Ercole, ma ci frequentiamo qui a Milano da 5 anni ormai. Abbiamo portato avanti questa sorta di fratellanza artistica, lui mi cura i video, ma le idee le buttiamo sempre giù insieme dai tempi di Godzilla. Cura anche la fotografia, faccio le cose solo con lui solitamente: siamo amici e colleghi sul lavoro, abbiamo la stessa visione.
Assieme avete deciso di raccontare insieme la Maremma anche tramite immagini.
Cosa faremo da grandi e Freccia Bianca fanno parte di un mediometraggio ancora inedito in stile fanta/docu/music/film: una cosa strana, insomma, tutta ambientata in Maremma, dove oltre questi due video ci saranno racconti, poesie e non solo. Surreale, onirico. Ci abbiamo lavorato insieme. Con lui è bello, perché quando inventiamo i video ci mandiamo sempre a quel paese all’inizio. Per noi questa è la libertà assoluta di potersi dire sempre tutto quello che pensiamo, e che poi ci fa trovare sempre una quadra. Sono molto fortunato.
Freccia bianca è il treno che passa una volta al giorno da Grosseto e arriva fino Milano. C’è della biografia?
L’ho preso tante volte. E volevo raccontare questa sorta di spirito di pellerossa che risale la penisola al galoppo e si porta via con sé le persone del luogo, entra nelle bocche delle montagne liguri e poi sparisce nella pianura padana e arriva a destinazione.
Scrivi sempre di cose che ti sono successe?
Non è tutto autobiografico assolutamente, c’è molto anche di quello ma anche storie inventate, raccontate mischiate insieme.
La cosa in assoluto che ti manca di più di casa.
Casa mia, nel senso letterale della mia abitazione, il posto in cui scrivo. Ho uno studio in campagna dove posso suonare a qualsiasi ora e comporre quando voglio. Non do fastidio a nessuno, sono solo.
E com’è crescere nella cucina di un ristorante.
Io sono cresciuto mangiando tortelli al ragù a pranzo e maialino arrosto con i fiori di zucca a cena. Infatti probabilmente mi mancano pochi anni di vita, poi muoio, ma almeno muoio felice. Come dice un mio caro amico dell’Isola del Giglio: “tanto bisogna morire tutti, meglio morì da vivi”
Ci interrompono di nuovo per fare una foto con Lucio. “Dopo le facciamo tutti insieme, anche con Carletto”. Gli faccio notare che non mi pare un tipo tecnologico. “In realtà una roba standard, come computer e smartphone, non ti aspettare il telefono mattone, eh. Spesso mi soffermo a pensare all’immagine dell’uomo di oggi nel futuro: un tempo ogni uomo poteva ad esempio avere un cappello in testa, per una questione di utilità nel vestire. Pensa invece a noi rappresentati dalla gente del futuro: saremo sempre visti con una specie di sasso luminoso in mano che ci portiamo ovunque”.
Qual è il tuo posto preferito a Milano?
Mi piace un sacco il parco di Porta Venezia, dove c’è il museo di Scienze Naturali. Anche se sui parchi ho una mia riflessione personale, che avevo anche scritto.
Me la recita. “È vero che gli alberi possono scappare in fine dei conti tutti lo sanno, per questo i giardini sono recintati e si chiudono a chiave i cancelli del parco, ulivi costretti a marciare sul posto muovendo col vento soltanto le fronde, gli alberi scappano meglio di notte senza portarsi dietro le ombre”. E aggiunge “arrivando in città ho notato subito questa cosa, perché si chiudono i parchi a chiave? Perché gli alberi scappano, e mi fanno anche un po’ tristezza, sembra come fosse uno zoo che chiude dentro di sé la campagna. Una campagna rinchiusa in gabbia”.
Mi ha ricordato la lotta tra l’uomo e la natura di Princess Mononoke di Miyazaki, dove la foresta è uno spirito vivente animato di creature fantastiche che la proteggono. Glielo faccio notare. “Ah sì, mi ricordo quel film con la principessa, giusto?”.
Sei uno che sogna molto?
Penso come tutti, non mi ricordo mai granché, non ricordo quasi mai a dire il vero. Ho sempre fatto l’errore di non scrivere le cose che mi ricordo appena sveglio.
C’è un canto popolare che racconta la Maremma così: “Tutti mi dicon maremma maremma, ma a me mi sembra una maremma amara”. Di quel lembo di terra che ricopre l’ultima parte della Toscana e arriva giù fino al Lazio ne aveva scritto pure Dante nel tredicesimo canto dell’Inferno “Non han sì aspri sterpi né sì folti, quelle fiere selvagge che ’n odio hanno tra Cecina e Corneto i luoghi cólti”. E poi Luciano Bianciardi e Carlo Cassola. Lucio lo sa bene.
Ti salutiamo Lucio, ma prima ci consigli un libro da leggere mentre ascoltiamo il tuo disco?
Io sono molto affezionato a 400 giorni intorno al mondo di Fogar, che racconta la traversata che fece partendo e tornando proprio da Castiglione della Pescaia con la nave Surprise, che è citata anche nel mio video. Mi affascina molto come storia. Tra l’altro ho scoperto che ci sono foto di Fogar nel ristorante di mia nonna: andava spesso a mangiare là . E poi chiaramente Bianciardi. Mi piace molto anche Emily Dickinson la trovo molto simile a Nick Drake come tipologia di scrittura. Hanno storie simili, morti giovani, da soli in campagna. Affascinante.
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