Corre l’anno 2019. Viviamo in un futuro che assomiglia terribilmente al passato. Sempre di più e sempre peggio. Certo non è la prima volta che l’umanità mostra il peggio di sé. Abbiamo avuto e continuiamo ad avere guerre, fascismi, epidemie, genocidi, terrorismi e tragedie assortite. Errori di valutazione madornali nella scala evolutiva. Disastri non annunciati. Scontri frontali con l’idiozia congenita della razza umana probabilmente, che trova una platea dove specchiarsi all’ennesima potenza nei magnifici giorni nostri delle (non)vite in diretta dei social. La trappola perfetta. La sensazione costante di vivere la propria quotidianità in equilibrio su un dirupo, con il pubblico sbavante a farti il tifo contro. Sempre e comunque e sempre peggio: la Felicità è il Sacro Graal a cui tutti aspirano ma per cui nessuno è disposto a sacrificare nulla, tutti che se ne sentono defraudati, tutti di conseguenza a rivendicare presunti torti subiti. L’arena degli infami, il coro lugubre degli invidiosi, il grande falò delle frustrazioni, la meschinità dei leoni da tastiera, le gogne mediatiche, la rabbia la rabbia la rabbia la rabbia la rabbia. La Rabbia unica livellatrice sociale. La rabbia che ti scava il cervello e ti svuota il cuore, lamento dopo lamento dopo lamento, commento dopo commento, like dopo like. La Peste.
E se la Felicità sfugge, la colpa è sempre e comunque di
qualcun altro. Viviamo nell’Era della Grande Autosuggestione. L’Era in cui “una
mia-mini-felicità mi è stata promessa e adesso cazzo la pretendo io sono
speciale io la mia-mini-felicità me la merito!”.
(...)
Metto i puntini di sospensione perchè in fondo non è che hai molto margine di ragionamento o di dialogo in una situazione così. Vaglielo a spiegare che la Vita va per conto suo e non deve niente a nessuno. Che tanto poi qualcuno a cui dare la colpa della propria vita di merda lo si trova sempre, figuriamoci, anzi è esattamente quello che fa stare in piedi tutto il castello dell’Autosuggestione (cercare all’esterno le cause del proprio malessere). Homo homini lupus e Mors tua vita mea, come hanno scritto i filosofi. E l’uomo in fondo sarà anche un animale sociale, ma non ci siamo mossi da lì. Ma davvero non abbiamo saputo fare di meglio? Com’è stato possibile? Che cosa (non) siamo diventati? Cosa significa questo ‘Tutti-Contro-Tutti-Contro-Tutti’? E tutto questo, ed è ancora peggio, e mi viene da piangere, e non so più come dirtelo: mentre la Terra sta per collassare (Sarebbe giusto dire ‘mentre la Terra ormai è collassata e siamo spacciati’ ma ho gli occhi pieni di lacrime e non riesco a dirlo e continuo a far finta che no che possiamo ancora farcela e devo per forza pensare così. ---ti prego Matilde perdonaci).
/respira/
Come dice il poeta: “Come faremo a uscire da questo fiume di merda puliti e profumati?”
Una persona che conosco diceva: “La vita umana non dura che un istante / Si dovrebbe trascorrerla a far quello che piace / A questo mondo, fugace come un sogno, vivere nell’affanno, facendo solo ciò che spiace, è follia”. Come ha ragione. E mi sembra un ottimo punto di partenza per farcela ad uscire dai soliti loop di merda imposti dalla Società. Solo che io non sempre quello che ho fatto, che mi piaceva, che ho sempre cercato di fare (almeno) quello che mi piaceva, è stato giusto. Lo ammetto. Ho fatto anche tante cose sbagliate, che hanno fatto male sia a me che ad altri. E ci ho messo un pò a capire che erano in qualche modo sbagli, che l’energia si può indirizzare e che è l’errore che ci rende umani (guardate com’è giusto usato così l’# ufficiale del festival, sbagliato come l’ha sbagliato Caravaggio).
Perchè si se ho sbagliato è stato per generosità curiosità creatività, non certo per calcolo meschinità o cattiveria. Per troppo amore. Per troppa umanità. Per troppa vitalità. Almeno quello. E i sensi di colpa rovineranno anche la vita ma dobbiamo imparare a conviverci (maledetta chiesa cattolica), anche questo fa parte del Grande Gioco della Vita e dell’Amore.
/respira/
Che tenerezza, questo dovrebbe essere l’editoriale di un
festival, ma sembra tutt’altro, come se fosse sbagliato. Non è così. Perchè il
MI AMI non è un festival, ma una Promessa d’Amore. Amore per la musica e per te
che hai deciso di venire al festival e hai trovato queste parole. Ma
soprattutto per te amoremio, che ci ho pensato così tanto in questi ultimi mesi
e com’ero contento e poi.
E poi all’improvviso è arrivato il futuro.
Qualcosa come: Volersi bene. Avere coraggio. Selezionare le cose serie e importanti, e lasciar perdere le stronzate. Dedicare tempo ed energie a chi se lo merita davvero e lasciar perdere chi se ne approfitta chi strumentalizza chi è troppo stupido per apprezzare quello che stai facendo per lui.
Insomma: prendersi cura, con Grazia e Devozione.
E Crederci. Sempre. Perché così, nonostante la Peste, forse, insieme, ce la
faremo.
* la citazione corretta in latino è ‘Omnia Vincit Amor’, abbiamo per scelta usato la versione “sbagliata” con cui Caravaggio ha intitolato un suo quadro perchè ci sembrava giusto e bello così
Quando finisce un festival, solitamente, ho la testa vuota, le ossa rotte e il cuore a mille. MI AMI è sempre un'esperienza fortissima, che dura non solo nei minuti caldi dell'azione ma parte da ben più lontano. Sono i mesi di notti insonni a dire non-ce-la-faremo anzi no-ma-certo-che-ce-la-facciamo, i giorni di attesa per il pensiero giusto o per una risposta positiva, la dinamica complessa e potentissima del lavoro in team. Il lunedi mattina dopo ho solitamente spazio solo per fare i conti: leggo tutto quello che (di bellissimo) avete scritto, rifletto sulle cose che non vi sono piaciute, ringrazio personalmente chi non ho avuto modo di incontrare nei giorni precedenti. Ho poi bisogno di un po' di silenzio per riordinare tutto.
Anche quest'anno pareva andasse così, fino a quando una esagerata adrenalina ha iniziato a pompare una inarrestabile voglia di 2020. Come se fosse scattato (ancora una volta) qualcosa di magico ma sensato e decisivo, e non volessi lasciarlo scappare per niente al mondo. E' il patrimonio più grande che siamo riusciti a costruire, scorre nel sangue di chi c'è stato e di chi lo ha fatto, ed è più forte di ogni parola che con fatica riesco a scrivere. Perché scrivere, dannazione, non è per niente facile; ci vuole la testa ordinata, e io ho caldo. Ma è troppo importante: fermarsi, capire bene, collegare i punti. Perché è solo indagando quel confine sensibile in cui si incontrano silenzio e adrenalina che potremmo farci la corazza per i giorni a venire e trovare la chiave per farcela un'altra volta tutti assieme. Perciò mi perdonerete se sarò più lungo di 140 caratteri e forse meno efficace di un dissing via IG. C'è un tempo per elucubrare e uno per sintetizzare. Diffidate da chi liquida tutto sotto forma di slogan. Da come si affrontano certe questioni passa il nostro lavoro e la nostra vita.
Volevo dire che per tutto il Mi Ami 2019 non ho mai toccato il cellulare. Detta così sembra irrilevante, invece è una cosa che, a un certo punto, ho notato. Non ho avuto la necessità ansiogena di controllare il cellulare o di cercarci qualche gratificazione. Ero troppo occupata a guardare tutto, ad ascoltarlo bene, a ricordarmelo. Avevo addosso la sensazione della prima ed ultima volta. (Editoriale di Staradio)
Quello che accade quando si fa un festival di piccole-medie dimensioni come il nostro (non mi azzarderei mai a chiamarlo boutique) è che si costruisce una vera e propria comunità temporanea. Tiriamo in piedi a tutti gli effetti un posto che non esiste, che esisterà a tempo determinato, e poi tornerà a non essere. Almeno fisicamente. MI AMI è creare un ecosistema che si accende per poche ore, ma dura per tutto l'anno. Per questo, edizione dopo edizione, oltre a cercare di mettere sui palchi la miglior musica possibile, abbiamo cercato di migliorare impianti, strutture, tecniche, servizi. Abbiamo poi reinterpretato l'area in ogni singolo dettaglio, accendendo spazi che non avevamo mai considerato prima. C'è ancora tanto lavoro da fare, ma è stato bellissimo vedere che quasi ventimila persone vi si siano distribuite organicamente e felicemente, raccogliendo la nostra visione e trasformandola in realtà.
Da buona comunità, abbiamo i nostri usi e costumi. Eccone alcuni. 1) Non vogliamo che nessuno si faccia male. Solo nel 2019, per affrontare i risvolti mefistofelici di questo periodo impaurito fatto di psicosi collettive e spray al peperoncino, abbiamo investito migliaia di euro in sicurezza. 2) Non vogliamo contribuire a riempire il mondo di plastica, così insieme a Magnolia la abbiamo eliminata completamente dai bar: quei bicchieri che avete visto per terra e pensavate (male) erano in realtà di PLA, materiale biodegradabile. Nei backstage abbiamo eliminato le bottigliette sostituendole con le lattine, più costose ma completamente riciclabili. Un piccolo passo, cercheremo di farne sempre di meglio. 3) Cerchiamo di farvi arrivare con mezzi alternativi alla macchina, per questo vi offriamo convenzioni con CityScoot o le navette gratuite integrate al servizio pubblico: qualcuno ha dovuto avere pazienza nell'attesa, purtroppo non bastano mai.
MI AMI 2019 è stata la più grande sfida che abbiamo mai deciso di affrontare come organizzatori di eventi, ed è anche la nostra promessa d'amore mantenuta. L'abbiamo visto negli occhi delle ragazze dei ragazzi del pubblico, che hanno brillato di stupore e gioia: per tre giorni il festival è stato un moltiplicatore di energia diffuso su tutta l’area, uno spettacolare portale di connessioni trascinato dalla musica dai palchi. Abbiamo visto show epocali e debutti incoraggianti, che sono poi il senso più profondo del MI AMI, il posto dove le cose iniziano (l’estate, i tour, le carriere, gli amori, le amicizie). La pioggia ci ha reso ancora più belli: non ha fermato i concerti e nemmeno il pubblico, che ha continuato a cantare e ballare e vivere appieno questa che è a tutti gli effetti una esperienza totale. Come è giusto che sia. “Bellezza, scoperta, libertà, condivisione, grazia, forza, coraggio e poesia”.
C'è qualcosa di diverso, di mistico e misterioso nel costruire questa comunità temporanea in festa. Leggevo un saggio di Jesi: "in stato di festa essi posseggono ed esibiscono anche la massima densità, concentrazione, della loro umanità universale". Essi siamo noi. "L'umanità nella sua massima concentrazione coincide con l'acme della differenza". La differenza è la diversità, la differenza è l'altro. Potremmo dire che è questo il motivo per cui facciamo i festival: per permetterci di riforgiarci all'interno di una esperienza collettiva che Caillois descrive così: "l'istante in cui l'ordine cosmico è soppresso".
Nel mondo della musica ci sono diversi mestieri. Un paio di esempi. C'è chi compra i dischi dagli artisti, come le case discografiche fanno con i master (la copia originale da cui verranno stampate tutte le altre), per poi rivenderle in formati digitali e fisici; c'è chi invece quei dischi ha aiutato a realizzarli, come i fonici o i produttori. E noi? Be', noi invece gli artisti li “affittiamo”: anche se cerchiamo di averli nella maniera più unica ed esclusiva, li noleggiamo per una sera, poi la sera dopo li noleggia un altro e via così. Potremmo chiamarla live sharing economy, in fondo - “riuso, riutilizzo e condivisione” - ma non è poi niente di nuovo: si faceva così nel mondo dell'arte già nel '400 o nel '500, quando i quadri non si compravano ma si appunto si noleggiavano i pittori. Trovo questo corto circuito con la dinamica pre-borghese assolutamente affascinante, perché pone l'accento sull'equilibrio difficilissimo e molto complicato che c'è oggi fra mercato e cultura, fra sponsor e artisti, fra mecenatismo e branding.
Quello che sta accadendo al mercato della musica italiana è abbastanza noto agli addetti ai lavori, forse meno a chi semplicemente ascolta e fruisce. Da qualche anno viviamo in un mercato performante e autoreferenziale, dove funziona quasi solo la nuova musica italiana (dall'itpop alla urban). Molti artisti hanno maturato una buona capacità di vendere dischi e biglietti dei loro concerti, divenendo perciò appetibili per realtà che fino a qualche mese prima non li avrebbero nemmeno presi in considerazione per uno slot di apertura. Oggi proprio quelle agenzie si combattono quegli artisti a colpi di anticipi talvolta milionari. Da dove arrivano questi soldi? E' successo che siano state comprate da gruppi multinazionali o in generale da aziende con grossi capitali, in grado dunque di iniettare liquidità sconosciuta ai piccoli player. Ecco dunque spiegati i billboard in giro per Milano, ad esempio. Questo meccanismo di spartizione del nuovo mercato da parte dei colossi è cosa comune in tutti i paesi occidentali (pensiamo ai fondi che hanno comprato quote di Primavera Sound o Sonàr) e ci conferma che la musica definita “indipendente” è oggi a tutti gli effetti un asset sugoso per le pastasciutte della live industry.
Oltre a essere l'oggetto del desiderio delle liquidosissime agenzie, gli artisti italiani sono oggi i soggetti preferiti per i branded content. E così lo sono anche i festival come il nostro, che in qualche maniera hanno anticipato e valorizzato proprio quegli artisti di cui sopra. Al MI AMI a dire il vero di quei milioni non s'è mai vista nemmeno l'ombra, e forse meglio così. Ammettiamolo: certi festival oggi sembrano la fiera delle marche (non la regione). Il rischio dell'overbranding, della stratificazione dei loghi, è un pericolo anzitutto per l'identità del festival, a cui rischia di rubare la magia di un incontro nel nome del consumo. E' comunque bene ed opportuno dirlo: allo stato delle cose senza sponsor è impossibile realizzare festival sostenibili (cioè in grado di fornire i servizi che il pubblico richiede o di ottemperare agli obblighi di legge). Sugli organizzatori come noi ricade tutta la responsabilità e tutti i costi che ogni anno crescono inesorabilmente (da quelli degli artisti, che vogliono sempre di più, alla logistica). Lavorare con i brand (soprattutto quelli con cui condividi valori) è l'unica via percorribile per realizzare cose che altrimenti non saremmo in grado di fare.
I cultori più integrali del purismo dell'arte sono solitamente ricchi, e dunque possono permettersi di dire no. Noi facciamo più prosaicamente il nostro mestiere, che è in fondo (anche) intrattenimento, e dunque potremmo sembrare immuni a questo tipo di riflessioni. Invece no, e per un semplice motivo: le logiche dei brand sono quasi sempre logiche di puro consumo, ovvero completamente diverse dalle nostre. Portare un brand ad abbracciare la tua visione è un lavoro che può rivelarsi difficilissimo, ma fondamentale per entrambi. Per noi che tuteliamo la nostra comunità, per loro che cercano di abbattere il muro che li separa dalla gente. Non ci può essere accordo senza riflessione, senza convergenza sui valori comuni. E' per questo che ringrazio davvero a cuore aperto gli sponsor di quest'anno (Tidal, Jowae, WeRoad, CityScoot, SIAE): ci hanno aiutato (e spero noi con loro), senza trasformarci in un supermercato.
Di fronte all'impossibilità della comunicazione fra i mondi, capisco chi covi l'idea di un mecenatismo puro che permetta all'arte di muoversi senza compromessi. La favola della verginità. Il direttore artistico stanco di inseguire responsabili marketing ignoranti come capre. Oppure l'artista esausto di fare il pagliaccio ad ora aperitivo per il l'evento sponsorizzato, e ora desideroso di rifiugiarsi nel deserto lontano dalla società corrotta. Meglio vendersi ad un illuminato padrone o cercare di allenare le proprie gambe a stare in piedi da sole? Che cosa vuoi ottenere? Dove vuoi arrivare? A chi oggi sente addosso una inquietudine di cui non capisce bene la fonte e per cui cerca un nemico, dico di riflettere. Capite i contesti. Più che erigere muri, pensiamo a monitorare come cambiano i confini, a guardare come si mischiano le carte. Il nemico non potrà mai essere chi tutela il diritto ad esprimersi, chi crea le condizioni per suonare, per esibirsi, per comunicare in piena libertà.
Eventi come questo non sono solo svago, sono lo specchio dei non arresi, sono un’occasione di crescita e condivisione, di conoscenza e di cultura. Perché bisogna ricordarsi che la musica è molto di più che un passatempo, un diversivo. (“Perchè abbiamo bisogno di un festival come il MI AMI”, RadioAntennaUno)
Nelle notti più insonni, quando riesco a pensare solo a tutti i possibili worst case scenarios e mi chiedo perché lo stiamo facendo, cerco di scacciare i demoni con una domanda seria che necessita in effetti di luce (non solo del giorno), e quindi anche di riposo e sonno. Ora che tutti fanno festival di sola musica italiana, perché continuare a fare il MI AMI? La risposta che mi do svegliandomi al mattino, sudato, è triplice come il metodo dialettico di Hegel: 1) penso che al di là della facilità moderna con cui si raggiunge una scivolosa popolarità da playlist, molti artisti continuino ad avere un grande bisogno del nostro lavoro (24/7, 365) di selezione scoperta e spinta; di qualcuno cioè che creda in loro e lavori con loro, ma non per loro, e lo faccia con partecipazione, competenza e indipendenza; ma soprattutto che lo si faccia con una logica diversa dalle copie italiche di blasonati festivaloni commerciali internazionali o dal tessuto amatoriale delle province; 2) lo facciamo bene, perché abbiamo studiato, ci siamo sbattuti, abbiamo imparato a farlo, e questo è un valore di per sé; 3) ci piace farlo, e evidentemente piace anche a voi (grazie).
Il MI AMI è nato nel 2005, in un momento in cui il mercato musicale nazionale era non solo triste e poco interessante, ma anche esterofilo al massimo. Mtv era l'unico faro “giovanile” in un mare di conformismo, pur sempre una stimolatrice di cervelli multinazionale. Mentre in Francia tutti ascoltavano il rap in francese, in Germania il rock tedesco e in UK ovviamente la loro roba, qui ascoltare musica italiana era da sfigati. MI AMI ha fatto una cosa semplice ma forse rivoluzionaria: usare un formato europeo (il festival su più palchi, solitamente pensato per artisti internazionali) applicandolo alla sola musica italiana, dandole così credibilità e contribuendo a cascata con i suoi risultati a scatenare un meccanismo osmotico che ha riaperto diversi chakra. Missione compiuta? Non lo so. Non mi sembra in realtà. Quando la polvere d'oro alzata da questo momento di entusiasmo e opportunismi si riposerà a terrà, vedremo chi è rimasto nudo, chi in mutande o chi se ne è scappato a corte del prossimo Re.
Ma non finisce qui, mi dissi ancora una volta contorcendomi nelle lenzuola. In questi tempi politicamente ed economicamente così fragili, laddove il pensiero comune converge sui temi del populismo e del sovranismo, fare un festival di sola nuova musica italiana potrebbe essere un assist perfetto per le shitstorm e gli sciami digitali dei nostri tempi. Non è così. L'identità che costruiamo nasce dal dialogo (fra i generi musicali, le contaminazioni) ed è propensa al futuro, non difende la tradizione e non ha paura dell'altro. MI AMI è sì un festival di sola musica italiana, ma ispirato saldamente all'Europa. Quando iniziammo, nel 2005, io e Fiz ci portammo dietro le nostre esperienze in Francia e Spagna. Non è la lingua in cui canti che fa la differenza, ma come crei un varco nelle altre persone. Riuscire a comunicare con forza significa accendere sinapsi, stimolare nuovi percorsi. Sapere da dove vieni ti aiuta ad andare dove vuoi.
Sono tempi grigi, quelli in cui viviamo. Chi non sente scricchiolare il pavimento sotto i propri piedi è probabilmente sordo. La questione climatica, la più cruciale di tutte. La peste dei social là fuori, la guerra fra poveri, e chi le cavalca entrambe. E' il Medioevo dell'era digitale, come abbiamo detto nella nostra campagna di comunicazione. Fare i festival è la nostra politica, ma a questo giro mi sembrava giusto fare qualcosa di più evidente. Prendendosi anche il rischio di forzare la mano, di rovinare tutto, per non dare per scontato che le cose debbano andare così. E' il caso dell'invito alla Senatrice Emma Bonino, per cui mi sono assunto tutte le responsabilità del caso. In una giornata sold out in cui uno degli act più attesi era quel Massimo Pericolo divenuto famoso anche per aver bruciato la tessera elettorale in un video, l'idea è stata di riuscire a mettere sul piatto quanti più stimoli possibili, in una cornice che è poi alla fine è di divertimento (ma con il cervello acceso, spero). Non c'è la volontà di imporre una visione, di mono-direzionare il gusto, piuttosto di condividere una serie di tesi, lasciando che siate voi a scegliere.
Perché portare sul palco proprio la politica? Il più divisivo degli argomenti, il meno amato dai giovani e no. E perché proprio la Bonino? Figura che accende amori e odio. Non certo per tornaconto, altrimenti avrei chiamato chi era sicuro di vincere e non di perdere. Non certo fatto per prendere applausi, altrimenti avrei chiesto al buon Calcutta di regalarci un pezzo a sorpresa (l'ha poi fatto comunque, LOL). Quando Emma è entrata al MI AMI ha visto la gente divertirsi, stare bene, e ha detto “ho paura che non vogliano ascoltarmi”. Poi ci ha guardati e ha detto: “quando mi catturarono i talebani fu più più facile, almeno sapevo cosa fare”. Al che ci siamo seduti e umilmente le ho detto: “forse siamo matti, anche io mi chiedo chi ce l'abbia fatto fare, ma se siamo qui c'è un motivo”. Se parliamo di Europa e di Unione non esiste personaggio più credibile e autorevole di Emma per farlo: commissaria europea, Ministro del commercio internazionale e delle politiche europee, l'unica nel panorama italiano di scaramucce locali a rivendicare l'importanza di non isolarci e di non indietreggiare. “Emma, ti ringrazio per essere qui e per provare a convincere tutti che votare domenica è molto importante”. L'accoglienza è stata calda e molto forte, inaspettata. Grazie a chi ha capito.
Il futuro arriva spesso all'improvviso, ma sorprende solo chi non l'ha mai cercato. Da 15 anni, edizione dopo edizione, facciamo il MI AMI anche per migliorare l'Italia in cui viviamo (ognuno dovrebbe farlo nel suo), ma soprattutto per costruire l'Italia che verrà. Questa per noi è una grandissima e bellissima responsabilità, la nostra promessa d'amore al futuro. Ogni tanto mi piace pensare che fra vent'anni, indipendentemente dallo schieramento, la nostra Presidentessa del Consiglio possa una ragazza fra voi, nel pubblico, che affermi d'essere stata ispirata da quella signora con una specie di turbante in testa, un po' acciaccata ma certamente molto cocciuta, che parlava di diritti all'interno di un festival musicale, in un periodo davvero buio per il paese. Mi piace pensare che, come per Mahmood (https://www.instagram.com/mahmood/) o Frah Quintale (https://www.instagram.com/p/BjHT8dfA-bv/) la prossima star o il prossimo fenomeno sia qualcuno che abbia detto “voglio suonare al MI AMI” e sia tornato a casa a darci dentro con la musica. Mi piace pensare che qualcuno fra i nostri volontari, dopo aver fatto servizio encomiabilmente per tre giorni, ora sia così gasato e motivato da star progettando un evento tutto suo, una cosa nuova e bellissima. Mi piace pensare che qualcuno sia capitato casualmente al festival e abbia deciso che la sua vita dovesse cambiare. Oppure mi piace pensare che fra qualche anno a dirigerlo, il MI AMI, ci sia qualcuno che l'ha amato, che l'ha vissuto, per cui ha sudato, e magari è già qui.
Incredibile, tutte queste parole senza in fondo non averne spesa neanche una sulla musica. E' così che funziona oggi nel mondo della industry italiana, e questo vi fa capire quanto delicata sia questa fase di passaggio. La verità è che il report dettagliato di quanta meraviglia è accaduta sui palchi lo potete trovare nelle altre pagine di questo speciale. Abbiamo assistito ad una edizione ricchissima, dove la diversità ha trionfato. Concerti indimenticabili di Motta, Mahmood (con Sfera Ebbasta e Guè), Giorgio Poi (con Frah Quintale e Calcutta), Myss Keta (con le ragazze di Porta Venezia), Venerus (con gli Aristogatti)... un bellissimo arcipelago musicale in sana competizione ma che sa cooperare. L'orchestra di Auroro Borealo e ancora Sick Tamburo e Fast Animals & Slow Kids. Le ragazze della domenica Eugenia Post Meridiem, Ginevra, Her Skin e Any Other a la classe di Carboni, Sinigallia, Dimartino Bugo, I Hate my Village, La rappresentante di lista, Canali, Truppi. Abbiamo assistito allo storico debutto live ufficiale di Massimo Pericolo, per non parlare della gioventù degli Psicologi. La bellezza selvaggia dei Tropea. Tutti gli italiani+ che con naturalezza crescono in questo teatrino mediatico ostile: Chadia Rodriguez, Maggio, Mike Lennon, La Hasna, Victor Kwality. L'epico show dedicato ai popoli oppressi di Speranza. Ketama a notte fonda. Le bordate elettroniche di Uccelli e Capibara e Nava. La trap dei Tauro. La disco di Le feste antonacci, Mille Punti e Dellacasa. Il palco Retro, la novità di quest'anno, che diventa una casa imprescindibile. La sorpresa dei Tonno. Il furore di Yonic South e Gluts. L'amico Nikki e i Janaki's Palace da Borgomanero. Impossibile citarli tutti. Bisognava esserci.
Grazie anzitutto ai quasi 20k che hanno vissuto il MI AMI e agli artisti che ci hanno regalato ognuno nel suo qualcosa di speciale. Grazie al Comune di Segrate e alla Polizia Locale per il prezioso sostegno. Grazie alle istituzioni. Grazie a tutto lo staff del meraviglioso Circolo Magnolia, dai baristi ai buttafuori passando per gli encomiabili tecnici e facchini. Grazie all'idroscalo di Milano. Grazie agli sponsor. Grazie a Ale Baronciani e a Vittoria per aver creato una bella magia tutta illustrata al MI FAI. Grazie alle agenzie con cui ho lavorato, agli artisti che ci hanno creduto. Grazie a Spaghetti, Storielibere e WeReading per aver sperimentato. Grazie ad Andrea De Luca per la meravigliosa illustrazione. Grazie ai food trucks. Grazie a Franci per la pazienza con i silenzi e l'adrenalina. Grazie ai volontari che si sono spesi per noi, e infine grazie a noi, perché siamo stati bravi: Fiz Carlotta Giulio Acty Chiara Silvia Irene Federica Paola Simone Nicolò Pietro Vittorio Bea Giulia Mirko Alex Leo Luca Andrea Delia Stefano Enrica Serena Lorenza Linda Chiara Nicholas Fossa Rubi Dario Eddi Simone Marco Valerio Jack Tony e tutti gli altri che non ho citato. Siamo la resistenza. Amor vincit omnia.
Grazie ai quasi 20 mila che hanno vissuto il MI AMI e agli artisti che ci hanno regalato ognuno nel suo qualcosa di speciale, grazie al Comune di Segrate e alla Polizia Locale per il prezioso sostegno, grazie al meraviglioso Circolo Magnolia (tutto il Magnolia: i responsabili, i tecnici, i cassieri, i baristi, la cucina, Jack e i suoi uomini della sicurezza) grazie agli sponsor che credono nel festival e ci permettono di alzare ogni anno la qualità delle strutture e dell’offerta, grazie ai volontari che si sono spesi per noi, e infine grazie a noi, perché siamo stati bravi.
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