“Canzoni della cupa” è un lavoro estremamente approfondito, si percepisce distintamente la lunga ricerca che c’è dietro. La cosa che mi ha colpito di più è stata il tuo racconto della provincia. Oggi per parlarne sembrano esserci solo due modi: quello nostalgico e quello etnogastronomico. Tu invece hai preso una strada completamente diversa, e molto più complessa. Da dove sei partito?
Sono partito dall’amore per la musica folk. Volevo fare un disco in cui bastasse impugnare una chitarra e cantare delle ballate, volevo confrontarmi con un patrimonio antecedente al mio e che quindi non si esaurisse soltanto nell’io ma che arrivasse a un noi. Sono partito dal mio amore per i folk singer d’oltreoceano, ma poi ho cercato un punto d’accesso a un giacimento folklorico che è quello delle mie terre dell’origine, le terre interne dell’alta Irpinia, ma rimodulate in una chiave un po’ più mitica. Il primo passo è stato quello di avvicinarmi all’opera di Matteo Salvatore, un cantautore che ha scritto delle canzoni di denuncia molto efficaci e molto naturali. Storie di soprusi e di ingiustizie del latifondo meridionale dove c’era un po’ tutto: la superstizione, la religione e un confronto con la nostra cultura, che è molto antica. Se ci si avvicina alla civiltà della Terra, se si scava un po’, si arriva subito all’arcaico, all’archetipo, al mitico. Carlo Levi diceva che l’umile Italia dei contadini accedeva a un tempo molto antecedente al nostro, e quindi ad un aspetto più ancestrale. Aveva ragione, e su questo ho lavorato molto nel corso degli ultimi anni.
Tu prima parlavi dell’etnogastronomia; è una materia delicata, perché viene facilmente disinnescata proprio da un approccio folkloristico, che cancella immediatamente tutta questa profondità. E invece aveva ragione Dylan quando diceva che “non c’è niente di rassicurante nella musica folk”. Nel folk c’è qualcosa che riesce ad accedere a un mondo nascosto, ad una specie di inconscio collettivo. E in questo non c’è nulla di paesano o rassicurante: c’è spazio per la morte, per il lutto, per i demoni, per la fame, per la miseria, per il desiderio carnale. Insomma tutta materia molto vera, ma che in un attimo può diventare una specie di barzelletta. Dipende come la si tratta, insomma.