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La prima e ultima volta che ti abbiamo intervistato avevamo parlato del fatto che in molti ti ascoltassero come una specie di guilty pleasure. A distanza di cinque anni abbiamo l'impressione che le cose siano cambiate. Nessuno si vergogna di dire che ascolta la tua musica, un po' per quello che sei diventato e un po' perché l'atteggiamento negli ascoltatori italiani sta cambiando. Che cosa ne pensi?
Tiziano Ferro: Penso che sia una cosa confortante, ci lamentiamo tanto della velocità un po' stupida con la quale si creano artisti che passano dall'anonimato a stare in televisione per sei mesi e diventare delle superstar, e invece a me è successo il contrario. La verità è che la gente vive di tempi umani, non di tempi sulla carta: è giusto prendersi del tempo per conoscere qualcuno. Che sia un amico che poi diventa il migliore amico, che sia una conoscente che diventa tua moglie, che sia un artista che inizia a scrivere e a cantare a vent'anni, con la credibilità di chi scrive e canta a vent'anni. Se cresce con te, cresce anche la voglia e il bisogno di dargli supporto. All'inizio i grandi nomi della stampa non erano interessati a me, ma non mi sono mai innervosito, perché sono cresciuto con un padre che mi ha sempre detto che le fasi della vita, dalle elementari alle superiori, sono proporzionali a chi le fa. Ogni prova che ti si propone nella vita è sempre alla tua portata. Se hai fallito in una prova che non era alla tua portata, evidentemente era giusto così. Adesso non la vivo tipo “Ah! Ve l'avevo detto, tiè, ve sta bene” (ride), non è come sono cresciuto io. Credo che molte persone abbiano avuto voglia e bisogno di crescere insieme a me. È successo anche a me, se penso agli artisti che ho ascoltato nella vita. È una cosa generazionale, è fisiologica e mi conforta, perché vuol dire che siamo arrivati qui con i tempi giusti, maturi, e che è qualcosa di un po' più significativo di una sbandata.
Abbiamo letto in una tua intervista che da adolescente ascoltavi i Take That di nascosto, confermi?
Tiziano Ferro: Esatto. È l'esempio forse più giusto. La sera che i Take That andarono a Sanremo senza Robbie Williams e annunciarono che si sarebbero sciolti, facevo credo il secondo anno delle superiori. La mattina dopo le mie compagne erano disperate, alcune piangevano, mentre io facevo lo sbruffone e dicevo “Ma chi se ne frega, siete esagerate”, e tutte mi odiavano. In realtà ero tristissimo ma non lo volevo ammettere. Ero proprio il più triste di tutti. L'esempio, come dicevo prima, è quello più giusto anche perché poi Robbie Williams è diventato uno dei miei artisti preferiti.
Tra l'altro, come lui, tu fai un pop estremamente influenzato dal r'n'b e dal soul e sei stato tra i primi a portare questo genere in Italia, mescolandolo con la canzone italiana, quella con la c maiuscola. Però non sembra che tu abbia fatto scuola, nel senso che non ci sono state altre persone che hanno fatto successo col tuo stile.
Tiziano Ferro: È curioso perché moltissimi amici spesso mi scrivono per farmi ascoltare degli artisti che secondo loro si ispirano a me. Non so, non riesco a essere così tanto egolatra da riconoscere me stesso in questi artisti, quindi probabilmente la penso come voi: quello che faccio è direttamente proporzionale al mio vissuto. Sono stato per la maggior parte del tempo all'estero, ho sempre avuto una testa errante, non sono mai riuscito a rimanere nei confini di casa mia. Non so perché ma la cosa non è evidentemente terminata e non conosco molte persone tra quelle che fanno musica che vivono come me. Forse la persona più simile a me sotto questo punto di vista è Jovanotti che appena può fa viaggi, esplora. Lo fa in maniera diversa e infatti la sua musica secondo me ne risente positivamente, ma io ho sempre fatto molta fatica a fare amicizia con persone che fanno il mio lavoro, non perché mi senta migliore, è una cosa che succede e basta.
Tu sei uno di quegli artisti che ormai può permettersi una certa libertà, mentre altri devono, in un certo senso, accontentare i propri fan. Magari i fan di Vasco vogliono l'assolo di chitarra o quelli di Laura Pausini vogliono un grande ritornello cantabile. Tu invece, al di là dei singoli, nei tuoi dischi hai una sfida sempre aperta e sperimenti continuamente. Indipendentemente da quello che decidi di inserire nei tuoi album, secondo te i tuoi fan che cosa si aspettano da te?
Tiziano Ferro: Avete messo grande chiarezza in una stanza piena di confusione, perché quello che dite fondamentalmente è vero, ed è strano perché io ho sicuramente iniziato con delle cose fortemente influenzate dalla musica r'n'b, black e rap in generale, ed è uno dei miei marchi. Ma la verità è che al grandissimo pubblico, quello meno appassionato di musica ma che magari ascolta la radio, sono arrivate più le ballad. Nel mezzo, ho avuto delle esperienze più tendenti al pop elettronico. È un privilegio che ho sempre vissuto con grande spirito di divertimento. È il vantaggio del foglio bianco, lo vivo come qualcosa di molto stimolante e non come il bisogno di rinchiudermi nella bella copia del progetto precedente. C'è stata un po' di incoscienza sicuramente, ma legata anche all'età, perché all'inizio, ve lo giuro, non c'era santo! Facevo quello che volevo e non sono mai stato neanche lontanamente sfiorato dalla paura. Oggi sicuramente sono più razionale, ma non riesco a rispondere a dei parametri, semplicemente perché non so quali siano. Se io oggi ti dovessi dire come sarà il prossimo disco, calcolando che sto scrivendo molto, ti direi sicuramente che sarà diverso da quello che è appena uscito, ma non so. Sicuramente sono sempre stato terrorizzato dall'idea di scrivere “Xdono” 2, “Sere nere” 2, cioè crollare in quella sorta di dipendenza tossica del bisogno di replicarsi. Devo dire che ad oggi mi sembra di non esserci mai caduto e sono particolarmente felice di questa cosa.
Da ascoltatrici certe volte capita davanti a un tuo nuovo singolo o all'ascolto dell'intero album di rimanere un po' stranite, ma l'idea è “Ok, adesso non l'ho capito però di Tiziano mi fido e continuerò ad ascoltarlo e sono sicura che mi arriverà anche questo”. Questo probabilmente accade anche a moltissimi tuoi fan. Secondo te sei stato tu fortunato o esiste un metodo per educare il pubblico?
Tiziano Ferro: (Ride) Stranite è troppo divertente, vi ringrazio per la sincerità e poi un po' mi identifico, però se vi dico questa cosa mi dovete credere: ci sono delle canzoni che io scrivo, e mi è successo recentemente, in preda a una sorta di flusso di coscienza abbastanza inarrestabile, le provino, preso dall'impeto le voglio cantare, faccio i cori, cambio qualcosina del testo perché magari funziona meno bene in metrica, ancora qualche piccola modifica, le registro e sono ancora commosso da quello che ho fatto. A quel punto stacco un'oretta, torno a casa, oppure sono in macchina, riascolto e dico: mah, oddio... (ride). C'è una sorta di ermetismo innato in me, sia nelle melodie che nella struttura delle canzoni e nella scelta di alcune parole, che può portare alla confusione. Mi chiedete se è fortuna o metodo? Secondo me è una via di mezzo: da una parte la fortuna serve sempre, dall'altra secondo me è quello che avete detto voi del rapporto di fiducia, ma in grande. Se tu nel tempo, coi tuoi mezzi, hai modestamente dimostrato a chi ha voglia di seguirti che quello che ascolta non è architettato, diventa vero e quella verità passa nel tempo perché non puoi andare avanti quindici anni a dire cazzate. Ogni tanto farai cose più o meno sensate, ma di base penso che una cosa le persone l'abbiano capita: quando faccio un disco io non mi limito, e questa cosa paga e credo che sia l'unico vero contratto sottinteso fra me e chi mi ascolta. È un atto di fiducia basato però su uno storico positivo. Il mio privilegio è che molte persone hanno voglia di ascoltare quello che faccio. Per questo posso permettermi di spostare un po' l'asticella in aree più complesse di arrangiamenti e di strutture.
Nel tuo album è ricorrente questa immagine del soldato che dopo una grande sconfitta ricomincia a combattere, però alle spalle di un soldato ci si aspetterebbe di trovare un esercito, invece spesso la tua è una voce solitaria. Hai difficoltà a cercare conforto negli altri o comunque a fare gruppo?
Tiziano Ferro: Sì, è uno dei miei difetti di carattere più grandi e sia chiaro che lo riconosco come tale, infatti se c'è una cosa che potrei consigliare ai ragazzi giovani che mi ascoltano è: non vi adagiate sulla figura del misantropo disadattato perché non porta a nulla. La solitudine dell'anima, i propri spazi, possono esistere anche se ci si connette con gli altri. Pensavo che con l'età sarei migliorato un po', invece niente, faccio fatica a fare anche le cose più banali che mi possano portare alla connessione con gli altri, a chiedere, a rimanere in contatto con i miei amici o con i miei genitori. Non perché non li ami, li amo profondamente, ma è come se avessi una calamita che mi trattiene dall'avvicinarmi agli altri. È una condizione davvero complessa, ogni volta che la espongo a qualcuno mi dicono: ammazza hai scelto il lavoro giusto! Ma è così fino a un certo punto, nel senso che innanzitutto non è proprio un lavoro che ti scegli. E poi sento il bisogno di gridare agli altri quello che ho dentro, però automaticamente mentre lo faccio mi espongo tantissimo. Forse è questo il motivo per il quale sempre ho vissuto all'estero: ci sono dei momenti in cui ho bisogno di silenzio.
Abbiamo letto che negli ultimi anni hai cambiato qualcosa come 8 case. Questi traslochi a volte anche transoceanici ti costringono a decidere cosa vuoi portarti dietro e cosa no, rappresentano la possibilità ricominciare, è stato così per ogni casa che hai cambiato?
Tiziano Ferro: Partiamo da un presupposto che, ci tengo a dirlo, il mio sogno sarebbe vivere a Milano o a Roma. Vorrei vivere in Italia, ma ho bisogno di una quotidianità molto diversa da quella che riuscirei ad avere lì. Devo pensare troppo a come muovermi e questo mi fa perdere spontaneità. I miei amici suggeriscono che mi trasferisca in campagna... no, in mezzo alle caprette ci andate voi (ride)! A me piacciono la città, l'asfalto, i negozi, i bar. Riguardo ai traslochi ogni volta è un incubo, forse perché da piccolo ne ho “subìto” uno, non so se sono stato traumatizzato da qualcuno o da qualcosa, però solo l'idea mi atterrisce. Per esempio lo scorso anno tra il lasciare la casa a Milano e trovare quella in America ho perso 5 anni di vita. Intanto devo anche decidere cosa fare con la casa inglese. Insomma, come dite voi, devo decidere cosa tenere e cosa no. E ogni volta sono lì davanti allo specchio che mi chiedo ma perché proprio a me, è una cosa che non mi piace affatto eppure continuo a farla. Forse è qualcosa di legato al karma che vuole che io viva e riviva quest'esperienza della tela bianca. Sei assolutamente costretto a rivedere il tuo rapporto con lo spazio quotidiano, è una cosa potente, molto potente, soprattutto se lo spazio nuovo che ti accoglie non ti convince, e questo è il caso della mia casa americana in questo momento. Parlo solo della casa.
Cos'ha che non va?
Tiziano Ferro: Il posto mi piace, la casa no, per la fretta di trovare qualcosa ho sbagliato zona, ho sbagliato vicini, sono rumorosi. Lo spazio non mi comunica accoglienza. Probabilmente il prossimo sarà un disco claustrofobico e pieno di disagio nei confronti dello spazio e dei luoghi (ride).
In ogni caso Los Angeles mi piace, qui si svegliano tutti presto e la maggior parte delle attività si svolge nel primo terzo della giornata. Un pochino credo che sia contestuale al fatto che, non so perché, qui non c'è un'illuminazione stradale sufficiente, ci sono quelle lucine fuori dalle case, quindi quando fa buio fa proprio buio, non c'è quella vivibilità media che c'è in Europa, per cui secondo me ognuno se ne sta a casa. Un giorno scriverò un libro sull'America e racconterò questa cosa.
C'è un termine che da un po' di tempo si usa negli States, che è fomo, “fear of missing out”, cioè la paura di non essere sul pezzo, di non essere informati sulle ultime novità. Tu ne soffri?
Tiziano Ferro: Io sono prince of missing out, sono il numero uno. Non sono sul pezzo per nulla. Mi informo sui dischi perché mi piacciono e sono la mia passione, guardo molti film, ma seguo poco i social.
Quindi non vivi in simbiosi con lo smartphone.
Tiziano Ferro: Ce l'ho come tutti perché ormai siamo schiavi di questa piccola estensione di noi stessi, però cerco di non diventare veramente smartcentrico, pensate che l'ho preso anche molto tardi, semplicemente perché tutti i miei amici si parlavano attraverso Whatsapp mentre io avevo un telefono normalissimo e mandavo gli sms. Un giorno una mia amica davanti a tanti altri amici mi disse che ogni volta che le arrivava un sms potevamo essere solo io, sua madre o la banca. Umiliante ma divertente. Allora un paio di settimane dopo, con lo stesso gruppo di persone, dico a tutti: “Ragazzi Virginia mi ha preso per il culo perché la settimana scorsa mi ha detto che quando riceve un sms o sono io o la mamma o la banca”. Lei mi guarda e mi fa: “No, adesso solo tu e la banca”. Dopo questa mi sono detto che forse avevo bisogno di uno smartphone.
Leggi le cose che ti scrivono i fan sui social?
Tiziano Ferro: Non seguo i miei social network perché mi terrorizzano. Ci ho provato eh, fui uno dei primi intorno al 2006 ad avere Myspace. Mi sembrava una figata e l'ho gestito in prima persona per 5/6 mesi, ma l'ho dovuto chiudere per disperazione. Primo perché ne ero totalmente dipendente, mi alzavo la mattina e lo aprivo, leggevo tutto, rispondevo a tutto, e poi mi intossicavo perché chiaramente su dieci cose belle, una brutta mi rovinava la giornata. Io non ho il carattere per fare questa cosa, e vi dirò di più: quando ho scelto di fare questo lavoro non mi hanno detto che sarebbe andata così. Non ho firmato per questo. Non ho la tempra per potermi confrontare con le opinioni di tutti, tutti i giorni. Purtroppo i social insinuano nella testa degli utenti che bisogna avere un'opinione su tutto, quello spazio bianco ti forza ad avere un'opinione nei confronti di qualunque cosa. Quindi se un artista fa qualcosa e a te fondamentalmente non te ne frega niente ma ti appare un suo post sulla tua home, probabilmente tu scriverai qualcosa, semplicemente perché puoi farlo, non perché veramente pensi qualcosa, ma l'opinione che formulerai è talmente strumentale, finta, che seguirai o la corrente estremamente positiva o la corrente estremamente negativa. Pure quello che vai a leggere non è lo specchio della realtà, è lo specchio di una realtà deformata da questa droga del commento al momento. Io ho la sana presunzione di pensare che chi scrive, che sia musica, che sia cinema, che sia poesia, che non lo faccia per il riscontro al minuto. Quanti artisti sono stati capiti anni dopo? Io voglio pensare che magari lì per lì una mia canzone possa non essere capita, ma tra 5 anni possa diventare anche la tua canzone preferita.
E come si concilia questa riservatezza con il fatto che invece le tue canzoni mostrino i tuoi sentimenti in maniera così cristallina?
Tiziano Ferro: Io penso che queste cose vadano molto d'accordo, nel senso che se è vero che il social network mi spaventa, invece lo spazio di un disco o di una canzone nobilitano le fragilità. È un territorio nel quale io mi sento libero di essere me stesso senza essere giudicato. La canzone, la musica, la scrittura, sono territori molto più indulgenti nei confronti di chi non sta bene. Davvero non capisco come gli artisti possano andare d'accordo coi social network. Immagino un Bob Dylan, un Freddie Mercury, oggi come farebbero loro, col loro mondo interiore, ad avere a che fare con un social network tutti i giorni? Secondo me chi lo fa con convinzione non può stare sui social network, mentre è molto più vero e spontaneo buttarsi con estrema, quasi sfacciata onestà in un disco. Poi se ho qualcosa da dire li uso e lo faccio sensatamente, senza dovermi sentire schiavo ogni giorno di pubblicare la fotografia di me che annaffio le piante.
Per esempio sotto Natale avevi pubblicato la cover (bellissima) di Justin Bieber, e sembrava fatta apposta per te.
Tiziano Ferro: Mi sono detto, ora canto una canzone di Justin Bieber, vediamo in quanti si incazzano... volevo rivolgere un pensiero all'esterno e mi piaceva l'idea di farlo provocando un minimo le persone. Era una maniera molto sottile per istigare lo spirito critico delle persone: per esempio quanti sanno che quella canzone è stata scritta da Ed Sheeran?
A proposito di questo, sembra che tu ti diverta anche un po' con queste provocazioni, per esempio nel brano con Tormento dici “Dopotutto io cantavo e tu nascevi nel '96 / lo so attento che t'abbaglia è multiplatino 'sto disco”. Non so se l'hai detto perché ci credi veramente o ti dovevi immedesimare nella figura del rapper, ma nel sentire il pezzo puoi proprio immaginare tu e Tormento che ve la ridete.
Tiziano Ferro: In effetti quando avevo 16 anni ho fatto le cantine, i sottoscala, i festival rap con la mia band, a 18 anni facevo le gare e le competizioni per autori, e poi ho iniziato a fare il corista sottopagato, anzi non pagato proprio, a dormire in tripla, tutto questo mentre preparavo gli esami all'università. E Tormento lo sa bene perché l'ho fatto per il loro tour. Per cui oggi quando vedo dei ragazzini, anche bravini per carità, non sto dicendo che sono delle pippe, però quando per un video su Youtube con una serie di visualizzazioni cliccate più o meno distrattamente da chissà chi, credono già di essere delle superstar ed entrano in competizione con altre persone mi viene da sorridere. Mi piace l'idea di dire quello che mio padre avrebbe detto a me quando provavo ad alzare un po' la cresta e cioè “Oh a regazzi', stai calmo, perché ci vuole tempo”. È un piccolo reminder per dire che ancora dovete mangiarne di pagnotte, arriverete o forse no al platino, ma intanto ricordiamocelo, come gli adulti lo dicevano a me.
Noi abbiamo 30 anni compiuti da poco, tu invece ne hai 37, quindi sei più vicino ai 40. Hai appena chiuso una fase della tua vita un po' densa e introversa. Cosa diresti al te stesso che aveva trent'anni? E hai qualche consiglio per noi per affrontare i prossimi dieci?
Tiziano Ferro: A trent'anni, nel 2010, avevo appena finito di scrivere un libro e mi avvicinavo, anche se odio la parola, al coming out. La settimana del mio compleanno ho parlato la prima volta con mio padre, e da quel momento in poi ho iniziato a prendere tutti i miei amici, a parlare con loro, fino ad ottobre quando uscì il famoso articolo di Vanity Fair. È stato un anno molto speciale per me perché ha rappresentato l'avvicinamento reale con tanti dei miei migliori amici che probabilmente erano già molto importanti per me. Insomma, forse direi poco a me stesso 30enne perché era già abbastanza occupato, però quello che probabilmente direi a chiunque, è di essere molto indulgenti con se stessi, perché è vero che i 30 anni sono un'età nella quale uno vuole diventare concreto, vuole che succedano le cose, vuole che un sogno diventi un lavoro, che questo lavoro diventi ben pagato, la casa, vuole capire che succede sentimentalmente ecc... però queste cose succedono a qualcuno velocemente e a qualcuno lentamente, e l'indulgenza verso se stessi secondo me passa anche attraverso la comprensione degli altri.
Un piccolo esercizio spirituale, anche se non si è religiosi, è credere che non siamo in totale controllo della nostra vita e della realtà, che la vita e l'universo vadano avanti anche se non siamo noi a controllarli e che noi, notizia del giorno (ride), non siamo dio. Partire da questo presupposto può essere utile. Io faccio questa cosa, lo so che suona ridicola, ma vi assicuro che funziona: nei momenti di rancore, di rabbia, di fastidio, di negatività, prego per il bene delle persone verso le quali provo rancore e rabbia e auguro loro esattamente quello che voglio io. All'inizio è faticoso, ma più lo fai e più diventa fattibile e più lo fai e più funziona. Quando smetti di desiderare il male, ma anzi auguri il bene alle persone che hanno creato in te questa angoscia, poi stai meglio, ci credi e la tua vita ne risente a livello positivo. Quindi liberatevi delle angosce, delle rabbie, dei rancori perché sono assolutamente inutili, e ricordate che alla base di tutti risentimenti c'è sempre la paura, la paura di qualcosa: di non essere abbastanza bravo, di non essere perfetto come di non piacere alle persone, di non piacere a se stessi. Tutto qui: essere indulgenti verso se stessi e perdonare tanto gli altri.
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