Descrizione

Non è tutto pop quel che luccica. Quantomeno non in quello che a stento si può ancora chiamare underground. C'è ancora chi si vota alla propria musica quasi misticamente. Perché la musica non è uno scherzo, è una liturgia. Nessuna ironia post-moderna. Bensì una mistica della provincia cronica. Emilia paranoica che diventa carsica, oltranzismo post-punk fuori tempo massimo e dunque assolutamente attuale. Come uno scavare cunicoli nella bolla del contemporaneo. O un declamare ieratico lungo la statale digitale. Geografia. Cronaca. Sottrazione. Critica. Autocritica. Idealità: “Siamo profondamente contrari ad una musica che serve ad intrattenere. Forse questo è il punto più importante. La musica, certo, è un gioco. Ma un gioco estremamente serio. Odiamo le canzoncine che servono soltanto a divagare e a sorriderci su. La musica è un linguaggio antico, religioso. Rituale.” 


In una parola: unoauno, segno x fra i risultati del tedio domenicale. Riproduzione in scala reale della realtà. “Cronache carsiche” il titolo geografico (una geografia esteriore che si infila dentro) di un disco di debutto che non diresti per dei classe '94. La trap? No, i Lighting Bolt. L'indie-pop da cameretta? No, gli Shellac. Perché “la musica non è fatta per di-vertirsi: è fatta per in-vertirsi. L’esperienza conoscitiva-espressiva più grande che abbiamo. Un tale avrebbe detto è linguaggio dell’interiorità.”


Non si fatica a trovare una filiazione CSI – Massimo Volume in queste otto canzoni scarne, radiografiche, dove la voce prova a stare in piedi controvento e ci riesce. C'è un qualcosa di retromaniaco in questi suoni e in queste parole rigorosamente dette come materia tonale e ritmica. Ma c'è anche un incunearsi nell'oggi, un ridurre all'osso dove c'è carne che vibra, uno sbattere caparbiamente la testa contro il murale alfanumerico del presente, “Uno a uno contro il muro / Uno a uno muso duro”.


Basso, niente chitarre, niente sovraincisioni, una batteria in parte elettronica in parte no, qualche tasto di synth. Un rigore geometrico in presa diretta mixato volutamente grezzo – poco sentimentale, molto elettrico-digitale – a scarnificare tracce provenienti da un paesaggio carsico consumato dall’acqua, il mare adriatico, i lidi balneari deserti, le cataste di appartamenti, gli spazi stretti della metropolitana. Brani che chiamano in causa persone, luoghi, eventi precisi; lo scarto che permette di trasmettere qualcosa in modo inequivocabile e al contempo un'indeterminatezza che schiude significati molteplici.


Aprire con un'invocazione agli “Dei”, provare a “Restare vivi” (“È tardi / Fai la spesa / Vai al PAM / Bambini e negri / Urli da Vietnam”) nella realtà “Carsica”. Fare un viaggio in due parti attraverso la “Aleppo” di un amico scomparso (“Andrea non ci sei più / Andrea mi manchi tu / Laura lo sai anche tu / Ora non pensarci più”) che è anche l'inizio della rabbia urlando fra le macerie “Pape Satàn / Pape Satàn / Aleppo”. E' nel dolore che un “Figlio” smette di essere tale, quando cammina con il padre “su fino al Canton Ticino / dove il vicino non guarda il vicino” e quando si sbarazza di tutti questi “Giochi”: “sono stufo torno a casa ho mal di testa prendo l’Oki / sono stanco di tutti questi cazzo di giochi”. E in fondo una “Clausura” quale canzone d'amore suonata sui nervi di chi sa che “ci incontreremo alla fine / tra gli affitti da pagare / tra le cose vuote da spostare”. Là dove “l'amore rivela la morte”. La morte che ci prende unoauno, palla al centro con la vita.

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