Descrizione

L'album è una fusione di stili poptronici che trascendono le convenzioni: una dance della catastrofe che fonde ecletticamente il groove della nu italodisco con le influenze sofisticate della french house e del funk, e sfociando sia nelle atmosfere oniriche e sintetiche di dream pop e synth pop, sia nella sperimentazione poetica.
Il titolo, richiama direttamente la frase iconica del celebre Bartleby, lo scrivano di Herman Melville che racchiude una forma passiva di resistenza e non conformità, sfidando le aspettative e le norme della società-mercato.
L'album è una meditazione ironica sulla contemporaneità che trae ispirazione da temi che richiamano l'esistenzialismo e il pessimismo filosofico e letterario, celandoli dietro al velo di un tessuto sonoro solo in apparenza di facile accesso, che tra allegorie e più livelli di lettura si prende gioco del linguaggio pop facendone quasi una parodia surrealista.
Il titolo richiama direttamente la frase iconica del celebre Bartleby lo scrivano di Herman Melville che racchiude una forma indolente e accidiosa di resistenza e non conformità, sfidando le aspettative e le norme della società-mercato.
“Forse è questo l’inferno?” si domanda l’artista nel brano di apertura “Nel Sugo”, parafrasando Aldous Huxley che sosteneva che “forse questo è l’inferno di un altro pianeta”, prima di condurci tra le pieghe di una Apocalisse Dance, dissezionando la realtà di un mondo di plastica in cui ogni cosa diventa prodotto, persone comprese.

Dall'estasi effervescente di “Acqua Frizzante allo sfogo metafisico di “Nervi Saldi”, dall’escapismo onirico delle “Ciliegie alla mistica negativa del “Pessimismo” passando per ossessione del tempio “Supermarket”: le sette tracce che compongono l'album sono una celebrazione dell'eccentricità e una tagliente quanto sottile critica ironica all’omologazione, addentrandosi nell'influenza pervasiva del consumismo e dell’apparenza.
I beat ballabili da “presa bene” e i ritmi funky sono solo la chiave d’accesso più superficiale a un mondo stratificato in cui le atmosfere malinconicamente sognanti e nostalgiche si biforcano e si intersecano in un paradosso sonoro dove Vinnie Marakas, come un Pierrot Lunaire lisergico, racconta la contemporaneità caratterizzata da un culto del benessere e dalla nostalgia costante di qualcosa di sconosciuto.

“Non chiedermi se davvero ci credo, non chiedermi del futuro o dove mi vedo: dove mi siedo?” dice Marakas nella title track finale “Preferirei di No” che esplicita il proprio manifesto poptronico di incertezza e rinuncia alla normaltà, lasciando intravedere il gioco-truffa rappresentato dall’intero disco, quasi a lasciare un indizio beffardo sulla reale anima che muove quest’album, dove nulla sembra essere realmente come appare.

Una riflessione esistenziale? Una messa in discussione delle norme sociali? Un invito a danzare sull’orlo dell’abisso?
O forse solo un raggiro, un inganno, l’ennesima fregatura di un profeta imbroglione?

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